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Obbligazionario, attenti al 3%
Il 2016 è stato l'anno della grande rivolta contro i tassi di interesse a zero, con una completa giravolta fra la prima e la seconda metà dell'anno. Grandi attenzioni sono state dedicate all'elezione di Donald Trump come il catalizzatore della grande inversione sul reddito fisso, soprattutto governativo, in quasi tutto il mondo sviluppato e, in parte, anche fra gli emergenti, anche se in questa vasta area le logiche sono state diverse.
E in questo contesto tante frasi sono state spese sul futuro programma di taglio alle tasse, lo stimolo infrastrutturale e la conseguente inflazione prossima ventura, favorita anche da prezzi delle materie prime che manifestano un minimo di ripresa.
In realtà probabilmente i cambiamenti sul fixed income erano già in divenire da qualche mese, in quanto, dopo quasi 35 anni di bull market dell'obbligazionario, interrotto solo da brevi manovre di rialzo dei tassi qua e là, si era giunti ai confini dell'assurdo. Ricordiamo infatti che l'estate scorsa non solo sul mercato secondario, ma anche in asta furono venduti bund decennali a coupon zero e sopra il livello di par. In pratica si andava a incassare un rendimento a scadenza negativa anche comprando direttamente dallo stato tedesco, cosa che ovviamente solamente pochi istituzionali possono fare. Vi era il sospetto che questa enorme e cruciale asset class fosse diventata uno schema Ponzi, in cui l'unica logica era rifilare ciò che si era appena acquistato al compratore seguente a prezzi ancora più assurdi, grazie anche agli obblighi in termini di asset allocation di diversi investitori istituzionali chiave, oltre che naturalmente all'azione delle banche centrali.
Non sorprendentemente la reazione è stata violenta, anche se tutto sommato le conseguenze potevano essere peggiori. Allo stato attuale dai minimi dell'ultimo anno sul decennale statunitense si è passati nel giro di circa sei mesi da un rendimento minimo all'1,32% all'attualie 2,35-2,40%. Un movimento che avrebbe comportato con una posizione lunga una perdita intorno al 20% del capitale investito.
Il massimo che è stato toccato lo scorso dicembre è stato intorno al 2,64%, una soglia probabilmente non casuale. Infatti molti si stanno chiedendo se quella che stiamo vedendo è una semplice correzione dal territorio dell'assurdo, destinata più o meno a stabilizzarsi da livelli non lontanissimi da quelli attuali oppure se siamo di fronte all'inizio di un vero e proprio, nonché duraturo, bear market.
L'atteggiamento delle banche centrali non aiuta: ad esempio, per quanto ci siano voci discordanti dentro la Bce, con ogni probabilità il minimo di tapering che verrà attuato nel 2017 sarà dovuto più all'esaurimento di collaterale accettabile secondo le regole della manovra (soprattutto Bund) che alla reale volontà di cominciare a chiudere lo stimolo monetario. La Fed dall'altra parte è impegnata nella manovra di normalizzazione dei tassi più svogliata e lenta di sempre.
La risposta al quesito è che per il momento l'evidenza mostra che siamo ancora nel territorio della correzione, ma dove lo scenario potrebbe cambiare radicalmente è una questione interessante. Un gigante come Bill Gross, uno dei più famosi gestori di obbligazioni del mondo, ha indicato nella soglia, per l'appunto brevemente superata, del 2,6% per i Treasury lo spartiacque. Incidentalmente questo valore rappresenta anche un movimento di due standard deviation dai minimi di rendimento, mentre se si sale a tre standard deviation la soglia del bear market arriva intorno al 3% di rendimento.
Ora in generale i movimenti dei Treasury decennali tendono a presentare una quantità maggiore di strappi dai picchi di prezzo oltre le due standard deviation, rispetto a quanto modelli gaussiani o similari suggerirebbero; il superamento di quota 3%, però, significherebbe entrare con sicurezza in un quadro che non si vede da oltre un decennio.