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Le catene dell'Europa
Dal meeting del 14 giugno della Bce, non pochi osservatori si aspettano l'annuncio di un prolungamento del quantitative easing oltre la fine di settembre. Ovviamente ciò dovrebbe avere effetti un minimo rassicuranti sui mercati, anche se la vicenda italiana dimostra che è finita l'epoca in cui le banche centrali spingono al rialzo i mercati cancellando qualsiasi traccia di volatilità. Ovviamente rimane l'impegno di mantenere vivo il progetto dell'euro e di evitare fallimenti sovrani, con conseguenze da incubo sul sistema finanziario europeo.
I due concetti sono però molto distinti e con ricadute non irrilevanti per le prospettive degli asset rischiosi continentali, che quest'anno hanno ripreso a sottoperformare in quasi tutte le economie più importanti. Lo Stoxx 600 è sotto di qualche decimale in valute locali, mentre l’Euro Stoxx 50, che raccoglie le principali 50 blue chip dell'Eurozona, è giù di circa l'1%. Non si tratta in sé di una performance pessima in un anno comunque volatile, ma è impressionante che listini che hanno alle spalle un ciclo economico favorevole e anni di sottoperformance non riescano comunque a superare né gli Stati Uniti, né le migliori piazze asiatiche.
Alla base del fenomeno vi sono due elementi, fra loro legati più di quanto non dicano le apparenze: da una parte la quasi assenza europea in comparti in crescita secolare, dall'altra la dimensione abnorme delle banche e la loro costante fragilità. Quest'ultimo punto in particolare rappresenta la peste bubbonica da cui il Vecchio continente non riesce mai a uscire del tutto: basti pensare al fatto che quest'anno l'indice bancario dell'Euro Stoxx, che comprende 27 istituti di credito delle nazioni dell'area della moneta unica fra cui sette italiane, è giù di circa il 13%.
Come si può capire da queste percentuali, la nefanda dinamica crisi sovrana-crisi bancaria non coinvolge solo il Belpaese. Questo andamento poi è particolarmente impressionante se si pensa che le prospettive di crescita europea dovrebbero continuare a essere decenti, con la possibilità di vedere una curva di costo del denaro maggiormente ripida. Se aggiungiamo che il P/E forward del settore è circa 12, ci sarebbero tutti gli ingredienti per vedere ben altre performance.
Il problema di fondo che però domina sempre è la paura di bilanci ancora fragili e non testati alla prova di una Bce meno accomodante: in questa maniera per tutto l'equity dell'Eurozona diventa se non impossibile comunque decisamente arduo ottenere sovra-performance.
In pratica, se si paragona il fatto di ottenere rendimenti positivi allo scalare una montagna, è come se gli investitori in asset europei avessero dei pesi attaccati ai vestiti. Dalla risoluzione definitiva dei problemi bancari passa in pratica la possibilità di vedere finalmente il dischiudersi del potenziale europeo, ma purtroppo questo sbocco positivo non è all'ordine del giorno e neppure all'orizzonte sul breve-medio periodo.
Su questa base è interessante un semplice paragone. Se guardiamo la performance cumulata dell’Msci Europe, che raccoglie le azioni dei principali 15 mercati dell'Europa sviluppata, dalla fine del 2012 al 31 maggio 2018 in dollari e lo confrontiamo con quello dell’Msci Asia ex Japan (anch'esso in divisa statunitense), si scopre che quest'ultimo ha battuto di poco il primo: circa +49% a fronte di +46%. La differenza non è enorme, però va considerato che il periodo scelto per valutare l'Asia è stato uno dei peggiori della storia recente di quella parte del mondo fra taper tantrum, bolle cinesi scoppiate, golpe e stagnazione economica in Thailandia, invecchiamento della popolazione e crisi politiche in Corea e a Taiwan, un'Indonesia perennemente sull'orlo di serie difficoltà, un'India ancora fragile nonostante gli entusiasmi per Modi e tanti altri fenomeni negativi.
Non sarà facile invertire questa divergenza secolare.