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Guadagnare con le banche italiane
Al di là dei su e giù dei mercati, vale la pena chiedersi se vi è qualche nicchia su cui investire in Italia con un ragionevole profilo di rischio/rendimento e con un orizzonte temporale minimamente ampio. La risposta è positiva e per certi versi sorprendente, in quanto alcune delle migliori occasioni nel nostro paese sono da ricercare fra le banche. Queste ultime sono da anni ormai considerate da noi (e nella maggior parte d'Europa) l'anello debole del sistema, con performance borsistiche pessime che danneggiano le prospettive relative dei benchmark azionari continentali in generale.
In realtà il discorso va approfondito. Innanzitutto, quando parliamo di banche, intendiamo soprattutto i due gruppi sistemici, Intesa e Unicredit, che sono incomparabili, sia per dimensione dei bilanci, sia per solidità patrimoniale, rispetto al resto degli istituti nazionali. Infatti la maggior parte dei problemi del nostro apparato creditizio si trova in diverse realtà locali, oggi a pesante rischio di sopravvivenza. Le due major, invece, hanno operato nel corso degli anni tali aumenti di capitale da renderle fra la realtà più solide d'Europa. Unicredit, ad esempio, a fine giugno (una data come vedremo importante) vantava un capitale tier 1 pari al 12,6% degli attivi pesati per il rischio. Si tratta di un valore molto più ampio rispetto ai requisiti minimi richiesti da Basilea 3 del 9,2%, i cui principi sono stati accolti a livello di Unione Europea. Ciò si traduceva in un capitale in eccesso rispetto ai minimi di circa 12 miliardi.
Questo però a giugno. In quel periodo il nostro Btp si trovava già nel mezzo della tempesta, ma anche senza immaginare una loro contabilizzazione fino alla data di scadenza, dovrebbe vedersi un autentico disastro da parte del debito pubblico italiano prima di mettere a repentaglio la struttura patrimoniale dei due protagonisti nazionali.
Dove dunque si può puntare per fare qualche ragionevolmente solido guadagno in questo ambito? Sicuramente non sulle azioni: anni di aumenti di capitale sicuramente non hanno fatto bene alle prospettive degli Eps dell'intero settore bancario europeo, bloccate anche da una crescita economica potenziale mediocre. Il discorso però appare diverso per gli obbligazionisti.
In particolare parliamo dei cosiddetti coco (contingent convertible): si tratta di bond subordinati, talmente subordinati che stanno appena al di sopra del capitale azionario e vengono contati all'interno del capitale tier 1. Questi presentano clausole di conversione in capitale azionario, e/o di sospensione delle cedole e/o di taglio dell'ammontare rimborsato, qualora i ratio patrimoniali della banca emittente scendano sotto un certo livello. Allo stato attuale i coco emessi dai due colossi italiani pagano qualcosa al di sotto del 5% di rendimento, un valore piuttosto elevato anche per lo spettro degli high yield europei.
Infatti in generale, per via del loro grado di subordinazione nella struttura del debito di una banca, in generale ricevono rating sotto il livello di investment grade, ma è difficile pensare che per istituti di dimensioni sistemiche per una nazione si possa arrivare a un simile deterioramento patrimoniale, prima che intervengano il legislatore nazionale e la comunità degli investitori locali per operare un rafforzamento. Se per emittenti di grosse dimensioni e di buona qualità dunque il rischio di default appare veramente uno scenario estremo, con al contempo un ricco premio dato dall'effetto sconto generale derivante dall'appartenere a un paese come il nostro, la questione è un po' diversa per quanto riguarda la volatilità su un orizzonte temporale più breve.
I coco salirono infatti alla ribalta all'inizio del 2016, quando, nel mezzo di una situazione molto pesante sui mercati europei, i bond di diverse banche continentali seguirono a ruota l'equity con cali molto marcati. Da allora, però, le cose sono cambiate e oggi tale convessità negativa (essenzialmente il fatto che queste obbligazioni tendono a comportarsi in misura crescente come le azioni man mano che queste vanno sempre peggio) è molto meno marcata. Con una minore correlazione dunque fra azionario in periodo di risk-off e andamento dei coco, gli investitori possono contare anche su una gestione dei rischi correnti meno tempestosa rispetto al recente passato.