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La sorpresa di Draghi
Venerdì 16 novembre, in una nota tutto sommato non particolarmente sottolineata neppure dalla stampa italiana, Mario Draghi ha balenato l'ipotesi che a fine dicembre il quantitative easing potrebbe non finire. Una simile dichiarazione dovrebbe invece catalizzare una ben maggiore attenzione da parte degli investitori, per una serie di ragioni.
Innanzitutto nell'immediato le parole di Draghi rischiano di provocare più effetti negativi che positivi, mentre su un orizzonte un poco più lungo, diciamo per il dispiegarsi del 2019, ovviamente l'effetto sarebbe un ennesimo toccasana.
Da dove derivano queste affermazioni? Per rispondere alla domanda, vale la pena analizzare quanto è stato sottolineato da Draghi a margine della riunione della Bce a Francoforte. In particolare è stata posta enfasi sull'inflazione che non ne vuole sapere di tornare intorno al target del 2%. Attualmente, infatti, l'aumento dei prezzi al consumo, nelle sue componenti core, è più vicino all'1% che al 2%. Molti ricorderanno che tale dato avesse costituito già nel 2015 la base per lanciare il Qe. Infatti la Bce ha come mandato di mantenere la stabilità dei prezzi secondo il proprio target, attualmente intorno al 2%. Non è previsto invece che Francoforte usi la politica monetaria per fornire una spinta all'economia continentale.
Ciò almeno a livello ufficiale: infatti il fatto di preoccuparsi dell'andamento troppo anemico dei prezzi è diventato ormai una proxy, nonché un omaggio alla lettera dell'ortodossia monetaria tedesca, per dire che l'economia non tira e che ha di nuovo bisogno di botte di liquidità. È vero che si può avere inflazione senza crescita economica, quest'ultima però in generale tende a stimolare almeno un po’ le pressioni al rialzo sul costo della vita. Avere un'inflazione e quindi un Pil nominale così contenuti non è certo sintomo di grande vitalità.
Stabilito questo punto, risulta più lineare comprendere perché le parole di Draghi nell'immediato potrebbero non essere prese benissimo dai mercati: de facto, se il presidente della Bce tornasse di nuovo sull'argomento, sarebbe come ammettere in maniera conclamata lo scenario che abbiamo appena delineato come più probabile a proposito dell'economia europea. Ossia che quest'ultima già da un anno sta rapidamente rallentando e tornando nel suo solito alveo di mediocrità, con le tensioni internazionali che rendono più probabili sorprese negative piuttosto che positive.
Incidentalmente non è incredibile pensare che un allungamento ulteriore del Qe potrebbe provocare più di qualche scossone a livello europeo, con le elezioni di maggio in avvicinamento, anche se è da dare per scontato che se Draghi ha pronunciato queste parole è perché vanta un ampio consenso sul da farsi all’interno del board di Francoforte. Nel medio periodo ovviamente un'iniezione costante da parte della Bce risulterebbe quanto mai gradita, non peraltro perché andrebbe a compensare il tightening di Fed e Bank Of England, contro le quali la povera Bank of Japan, unica a portare avanti politiche monetarie espansive, non è ormai più sufficiente.
Comunque le condizioni sono molto diverse rispetto al 2015, per cui non sarebbe ragionevole aspettarsi un boom come quello vissuto a partire dalla seconda metà del 2016 per arrivare a inizio 2018. In definitiva quello che avremmo sarebbe un mondo post -Qe e pre-Qt, essenzialmente un ambiente favorevole a rendimenti di equilibrio piuttosto stagnanti e mediocri, senza però particolari sobbalzi. Cosa questo significhi in concreto tenteremo di capirlo in un prossimo articolo.