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Stati Uniti, condannati ai tassi bassi
Di recente abbiamo visto che le performance economiche degli Usa negli ultimi 10 anni sono state da un certo punto di vista decisamente mediocri, ma dall’altra parte non si può fare a meno di notare che l'assenza ormai da un decennio di una recessione e il rallentamento demografico hanno reso i risultati macroeconomici statunitensi in questi anni ‘10 piuttosto buoni. In pratica un andamento abbastanza ambiguo.
In questo contesto, comunque, altri parametri appaiono migliorati negli ultimi anni: ad esempio, il saldo delle partire correnti in rapporto al Pil è uno di questi. Tale indicatore non era in territorio positivo dal 1981 e dall’inizio degli anni ‘90 praticamente non ha fatto altro che crollare fino a raggiungere il record storico del -5,8% nel 2005, nel mezzo del ruggente boom immobiliare. Dopo la grande recessione vi è stato un rapido miglioramento poi assestatosi: in questi anni si sono sempre registrati valori di qualche decimale al di sopra della soglia del 2%.
Fino a qui, dunque, non abbiamo fatto altro che elencare dati tutto sommato positivi. Dove i problemi cominciano a emergere è a livello di finanze pubbliche e di disuguaglianze sociali. Il debito dello stato, infatti, che era intorno a un gestibile 53% in rapporto al Pil all’inizio degli anni 2000, al termine del boom dell'era clintoniana, era risalito oltre il 64% nel 2007 e da allora vi è stata un'esplosione, con il rapporto attuale intorno al 107%.
Neppure si può dire che questo fenomeno sia stato dovuto solo agli anni immediatamente seguenti la crisi finanziaria: nel corso degli anni ’10, infatti, si è avuto un calo anno su anno del rapporto debito/Pil solo nel 2014, dopo che erano stati aboliti alcuni dei tagli alle tasse dell'era Bush, e nel 2017. Deficit e debito complessivo hanno ripreso a risalire robustamente con le riforme fiscali di Trump e anche per l'invecchiamento della popolazione, che ha portato la Social security (grosso modo l'equivalente della nostra Inps) in deficit nel 2017 per la prima volta nella sua storia.
Ai surplus di quest'ultima, cui il governo federale ha preso ad attingere per la propria spesa corrente nei tardi anni ‘90, si deve infatti buona parte del risanamento dei conti pubblici dell'epoca. Ormai non si può più contare su tale fenomeno, anzi nei prossimi anni sarà il resto degli apparati governativi americani che dovrà restituire quattrini. In pratica con ogni probabilità gli Stati Uniti si avviano a essere sempre più appesantiti a livello di finanze pubbliche.
Questo fenomeno porta a una prima e immediata conseguenza: come si è ben visto l'anno scorso, l'idea di rientrare prima o poi nell'alveo di una politica monetaria normale rappresenta una pia illusione. L'economia americana è condannata ai tassi a zero perenni, visto anche l'enorme quantità di debito corporate emesso nell'ultimo decennio e che inevitabilmente si troverebbe a essere sempre meno sostenibile in presenza di tassi significativamente più elevati, specialmente se si considera che comunque gli spread attraverso tutto lo spettro della qualità creditizia del debito aziendale rimangono storicamente molto bassi.
La prima economia del mondo è dunque uscita da una crisi potenzialmente agghiacciante con una ricetta che in Italia conosciamo piuttosto bene: debito pubblico e inflazione. Quest'ultimo aspetto rappresenta una questione chiave: in realtà l'incremento del Cpi, coerentemente con il rallentamento economico generale, è stato negli ultimi anni molto basso. Infatti la crescita del costo della vita non supera più la soglia del 3%, un fenomeno invece comune negli anni prima della crisi finanziaria; nel 2015 addirittura si è rischiata la deflazione con un aumento pari a +0,1%.
In realtà, però, questo dato nasconde al suo interno squilibri giganteschi che stanno portando problemi potenzialmente gravi sul lungo periodo, a livello economico e sociale, nonché di andamento degli asset. La prossima volta vedremo qualche dettaglio in più su tale argomento.