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Mercati: negli Usa la lotta all’inflazione non è finita
La guerra della Fed nel contrastare l’inflazione continuerà anche nei prossimi mesi. Secondo gli analisti vedremo i tassi Usa al 4,25 per cento entro fine anno. Il lieve rientro del trend della creazione di nuovi posti non basta per rassicurarla sugli effetti di secondo impatto.
Gli Stati Uniti fanno i conti con un mercato del lavoro più rigido del previsto. I dati relativi al mese di settembre, pur confermando che c’è un rallentamento della crescita dei nuovi occupati, lanciano due segnali: che l’inflazione continua a essere un problema e, di riflesso, che l’impegno della Fed nel contrastarla non è finito. Nonostante lo scorso mese i non-farm payroll siano aumentati di 263mila unità (a fronte degli aumenti di luglio e agosto, rispettivamente di 537mila e 315mila unità), il tasso di disoccupazione è sceso al 3,5% della popolazione attiva, contro le aspettative che lo vedevano fermo al 3,7%.
Il mercato del lavoro corregge ma resta sempre tonico
Sempre in settembre, rileva comunque George Brown, economista di Schroders, i salari sono risultati poco reattivi. La retribuzione oraria è sì aumentata dello 0,3% nel corso del mese, invariata rispetto al mese precedente, ma ha accusato un lieve rallentamento del tasso annuale al 5,1%. Anche altri indicatori suggeriscono che lo slancio delle assunzioni sta iniziando a moderarsi e non solo il rallentamento delle assunzioni. Le aperture di nuovi posti di lavoro, infatti, sono diminuite in agosto di 1,1 milioni, che rappresenta il secondo calo più ampio degli ultimi 20 anni. Inoltre, c’è da prendere atto che un numero minore di lavoratori sta abbandonando il proprio posto di lavoro, segno che è più difficile trovare un nuovo impiego rispetto al recente passato.
La paura degli effetti di secondo impatto
Per la Fed, sottolinea l’economista, la missione di riportare sotto controllo l’inflazione è tutt’altro che compiuta: i posti vacanti sono ancora 10,1 milioni, ovvero 1,7 per ogni lavoratore disoccupato, mentre le dimissioni sono 4,2 milioni (pari a un tasso del 2,7%). Numeri che tradiscono il livello di rigidità del mercato del lavoro d’oltreoceano e che rivelano quanto sia elevato il rischio di effetti di secondo impatto, in particolare con l’inflazione dell’indice dei prezzi al consumo (CPI) ancora ben al di sopra del target. Finché non ci saranno chiari segnali che le condizioni finanziarie più restrittive iniziano a guadagnare trazione, è quindi probabile che la Fed mantenga la sua posizione da falco.
Tassi Usa al 4,25% entro fine anno
I prossimi dati sull’andamento dei prezzi al consumo negli Stati Uniti saranno un fattore determinante per capire quanto potrà essere aggressiva la Federal Reserve nell’alzare i tassi d’interesse nella prossima riunione del Fomc. E, comunque, secondo Brown, potrebbe passare del tempo prima di poter concludere che la guerra all’inflazione è stata vinta. Eppure, come ha osservato il premio Nobel per l’economia, Milton Friedman, la politica monetaria funziona con ritardi lunghi e variabili, e ciò che era vero 50 anni fa lo è ancora oggi. L’economista di Schroders si aspetta che la Fed alzi i tassi al 4,25% entro la fine dell’anno, prima di fare il punto della situazione per osservare l’impatto del significativo inasprimento effettuato. E a questo punto ritiene, in ogni caso, difficile che gli Stati Uniti possano evitare una recessione se l’inflazione deve tornare vicino al target in tempi ragionevoli.