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Un’Italia ferma in un mondo fermo
Negli ultimi cinque anni a livello macroeconomico, quanto meno se si considerano i dati del Fondo Monetario Internazionale, è accaduto un fenomeno piuttosto peculiare. Nel lustro che comprende gli esercizi 2014-2018, quelle che erano state le economie più brillanti, spesso un po' pomposamente definite come rockstar, hanno smesso di crescere in maniera significativa in termini reali a livello pro capite (per alcuni a partire dagli anni ’90). In questo quadro è interessante esaminare le performance relative dell'Italia, pessime ma meno disastrose di quello che si potrebbe pensare, se si includessero fattori demografici e inflativi.
In particolare, vale la pena concentrarsi su una serie di economie (giustamente) considerate fra i maggiori vincitori della globalizzazione in un lasso di tempo ovviamente breve, ma anche indicativo di un'epoca che potremmo definire post-crisi finanziaria. Il paragone con l'Italia rende l'idea di un quadro di stagnazione globale in fieri, visto che le punte di diamante del pianeta hanno smesso di fare meglio di un'Italia caratterizzata comunque da una ripresa debolissima.
Con questo arriviamo al punto della questione: nel quinquennio preso in esame, il Pil pro capite dell'Italia calcolato a parità di potere d'acquisto, non ha perso alcuna posizione nei confronti di quasi tutte le economie sviluppate più brillanti dell'ultima generazione. In particolare in Europa abbiamo operato un confronto con Germania, Svezia e Svizzera, in Nord America con Usa e Canada e in Asia&Oceania con Corea del sud, Hong Kong e Taiwan da una parte e Australia e Nuova Zelanda dall'altra.
Il paragone è interessante per una ragione: si tratta della più lunga fase di stabilità in termini relativi di questo indicatore da 25 anni a questa parte. Infatti l'Italia ha raggiunto il proprio massimo in termini di Pil a parità di potere d'acquisto nei confronti dei rivali sviluppati in un periodo che va dalla fine degli anni ‘80 ai primi ‘90, mentre in termini generali il picco può essere individuato nel 1993. Da allora la discesa è stata praticamente senza interruzioni, tanto che i miglioramenti annuali si contano sulle dita di una mano e sono stati essenzialmente statisticamente insignificanti, mentre è stato lasciato nella maggior parte dei casi oltre un 1% all'anno nel rapporto relativo. Nel biennio 2012-2013, nel corso della peggiore recessione del dopoguerra, il nostro paese ha raggiunto un minimo che è stato poi sostanzialmente mantenuto.
Vediamo qualche esempio. Nei confronti della Germania il movimento è stato in ciascuno dei cinque esercizi di lievissima entità: complessivamente nel corso del 2014-2018 il Pil pro capite Ppp italiano è passato dal 75,54% del livello tedesco al 75,41%. Addirittura per quanto riguarda la Svizzera è stato recuperato un minimo di terreno passando dal 60% al 61,31%. La Svezia invece ha visto ancora nel 2015 un forte guadagno relativo rispetto all'Italia, il cui Pil relativo è passato dal 76% del 2014 al 74,22% l'anno successivo. Da allora si è recuperato qualche decimale, arrivando al 74,81% del 2018.
Risultati simili troviamo anche con il Nord America: ad esempio nei confronti del Canada, paese caratterizzato fino a praticamente pochi mesi fa da un mercato immobiliare fortissimo e fino a un quinquennio fa da un boom indotto dalle risorse naturali e dai consumi apparentemente senza limiti, il rapporto da noi preso in esame è passato dal 77,87% al 79,83%, evidenziando dunque un non insignificante miglioramento per l'Italia. Gli Usa della ripresa infinita e della botta alla crescita data da Trump hanno registrato solamente un modesto avanzamento di un distacco già ampio: nel 2014 il Pil pro capite Ppp italiano era il 64,4% di quello statunitense, nel 2018 il 63,31%.
Questi sviluppi possono costituire il proverbiale canarino in una miniera per analizzare i termini e le conseguenze di quella che sta diventando una stagnazione planetaria. La prossima volta approfondiremo l'analisi.