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I dubbi dell’investitore che predilige i bond
Dopo la riunione del 21 settembre appare più che probabile un rialzo dei tassi Usa entro la fine dell'anno. L'atteggiamento del Fomc sembra confermare la volontà di normalizzare i tassi e l'arrivo di una fase di inflazione al rialzo.
Dopo il collasso di Lehman Brothers nel settembre del 2008 e sulla scia dei timori per l’avvio di una spirale deflazionistica simile a quella sperimentata dal Giappone, le aspettative sull’andamento dell’inflazione hanno subito drastici cambiamenti. L’impatto di questo nuovo scenario di riferimento si è rivelato particolarmente negativo per i possessori di inflation linked bonds, che hanno incamerato pesanti perdite nel bimestre settembre-ottobre del 2009 (il Merrill Lynch Global Governments Inflation Linked index USD Hedged ha perso il 9,7% in quel periodo).
Nei dodici mesi successivi al collasso di Lehman, i Governi di ogni parte del pianeta hanno preso una serie di iniziative senza precedenti per evitare l’arrivo della deflazione. Ancora oggi, a distanza di più di sei anni, il giudizio sulla validità delle misure intraprese divide coloro che credono ci si debba preparare ad un prossimo ritorno dell’inflazione da coloro che invece propendono per l’avvio di un periodo caratterizzato da variazione limitate nella dinamica dei prezzi.
Se del binomio inflazione/deflazione si discute molto, esiste una categoria di strumenti di cui si parla molto poco: quelli che investono in titoli di stato ed obbligazioni a tasso fisso il cui rendimento è legato all’evoluzione dell’inflazione. Il vincolo del rendimento di un bond all’inflazione può essere perseguito fondamentalmente seguendo due modalità differenti (oppure servendosi di una combinazioni di tali modalità): facendo variare il valore della cedola nella stessa misura in cui lo fa l’inflazione o mantenendo fisso il coupon pagato, ma calcolandolo su un capitale che cresce o decresce nella stessa misura registrata dall’indice dei prezzi al consumo. In entrambi i casi, l’investimento in quest’asset class rappresenta un’opzione per difendersi, seppur parzialmente, dalla perdita del potere d’acquisto imputabile all’incedere dell’inflazione.
I bond legati all’inflazione possono contare su una storia che risale a due secoli fa, ma la loro diffusione significativa si è verificata soltanto dopo il 1980, in seguito all’esperienza negativa accumulata durante il decennio anteriore (periodo in cui un’inflazione fuori controllo traumatizzò i mercati finanziari per lunghi anni). Il vantaggio principale offerto da queste obbligazioni agli investitori che le prediligono consiste nel sapere con precisione il rendimento reale che sarà offerto dall’investimento (il tasso di interesse reale è la differenza tra il tasso di inflazione e il coupon fisso pagato da queste emissioni).
Gli emittenti principali di questa tipologia di bond sono stati il Governo degli Stati Uniti, quello britannico e quelli dei paesi dell'Eurozona. I bond anti-inflazione emessi dal Tesoro Usa vengono chiamati TIPS (Treasury Inflation-Protected Securities).
I fondi e gli Exchange Traded Fund che investono in bond legati all’inflazione rappresentano attualmente una buona alternativa per coloro che pensano che le intense iniezioni di denaro che stanno realizzando i Governi nell’intento di riattivare l’economia finiranno per provocare una forte impennata dei prezzi. Al contrario, si tratta di bond non raccomandabili per tutti quelli che credono che l’economia mondiale non si libererà in tempi stretti dalla morsa dell’inflazione prossima allo zero. In quest’ultimo caso, sarebbe meglio investire in fondi obbligazionari corporate, che potrebbero trarre vantaggio dagli acquisti operati dalla Bce e dalla BoE.