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Un campanello d'allarme per la crescita
La débâcle della presidenza Trump sulla nuova legge di riforma sanitaria, non arrivata neppure al Congresso per evidente mancanza di una maggioranza di voti, rappresenta la prima vera battuta d'arresto nell'attuazione del programma pro-crescita promesso. Il provvedimento essenzialmente è saltato in quanto riusciva a scontentare tutti: moderati e ultra-liberisti. Al di là dei dettagli, questo pasticcio, che in teoria avrebbe dovuto sostituire una riforma, l'Aca di Obama, già piuttosto confusa e dai successi non spettacolari, rischia di costituire la spia di un rischio generale di immobilismo, le cui conseguenze abbiamo già ipotizzato.
Finora i mercati sembrano avere reagito come molti si aspettavano, di fronte alla possibilità che la politica alla fine non riesca a fare niente: con un moderato calo azionario e un movimento più rapido al ribasso del dollaro, arrivato quasi a quota 1,09 nei confronti dell'euro.
Ovviamente un singolo episodio come questo non rivela più di tanto, però qualche indizio lo fornisce: un aspetto interessante è che proprio il biglietto verde sembra davvero assumere il ruolo di vittima globale nel caso di mancata crescita e non a caso il clima di avversione al rischio non ha portato a una fuga di capitali dalle divise degli emergenti, che hanno guadagnato anch'esse nei confronti della valuta di riserva globale.
Siamo dunque oggi in uno scenario opposto a quello della crisi finanziaria e degli anni precedenti, che avevano visto una grande quantità di dollari uscire dal paese per riversarsi sui mercati globali, emergenti in primis, ma pure in Europa. Infatti, checché se ne creda, nonostante la crisi del 2008 sia partita dagli squilibri del mercato immobiliare Usa, furono le maggiori istituzioni finanziarie straniere, soprattutto europee, a trovarsi particolarmente a mal partito, a causa di una forte leva in dollari, diventati improvvisamente merce rarissima e scarsamente disponibile sui money market di tutto il mondo.
Oggi il movimento dovrebbe essere invertito con l'America a trainare e a fare da recettore globale. Ma la domanda che sorge spontanea a questo punto è: se la locomotiva Usa non dovesse materializzarsi, qualcos'altro potrebbe sostituirla? Per quanto riguarda l'Europa sostanzialmente abbiamo già dato negli scorsi mesi una risposta sostanzialmente negativa.
L'altro ovvio candidato è la Cina, ma anche in questo caso ci sono seri dubbi. Senz'altro le dimensioni della sua economia e la sempre maggiore enfasi sui consumi promettono bene, però non bisogna dimenticare un elemento: per certi versi anche il Dragone sta diventando sempre più isolazionista.
Basta analizzare negli ultimi anni quanto è diminuito il suo saldo attivo di partite correnti e contemporaneamente quanto è calatala quota sul Pil del commercio totale cinese, pur cresciuto in termini assoluti. È sufficiente vedere che la maggior parte delle auto oggi comprate nel paese sono a marchio locale, mentre meno di un quinquennio erano intorno a un quarto. Si può poi considerare che nel maggiore mercato di elettronica di consumo del mondo le prime quattro posizioni in termini di quota di mercato degli smartphone sono occupate da produttori locali.
Anche nell'ambito della componentistica, chiave per la suddetta elettronica, in cui la Cina vanta deficit mostruosi con Corea, Giappone, Taiwan e Usa, ci sono forti spinte a una sempre maggiore autonomia. Se poi ci spostiamo nell'ambito del lifestyle, vediamo che i colossi locali del farmaceutico, degli articoli sportivi, dei cosmetici stanno conquistando sempre più i portafogli dei propri consumatori di riferimento.
Tutto ciò significa che la quota di denaro che le aziende straniere andranno a estrarre dalla Cina nei prossimi anni risulterà probabilmente stagnante, se non in calo. È vero che il colosso asiatico, proprio perché più autonomo, potrebbe risentire meno di un'eventuale crisi planetaria. Va però ricordato che comunque l'economia cinese è nel mezzo di una non facile ristrutturazione e che il cambiamento verso un paradigma consumista è a malapena sufficiente per rattoppare le magagne di un quindicennio di uso spericolato della leva da parte del settore statale. Insomma la Cina non si può permettere per il momento di fare da sola in un mondo in crisi a causa di aspettative deluse e al tempo stesso non costituisce più un mercato vergine da occupare manu militari per i colossi stranieri.
Per avere mercati in crescita non c'è quindi scelta: l'occidente deve trovare una propria via per accelerare il tasso di incremento del Pil.