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Guardare l'inflazione
I mercati stanno cominciando ad analizzare i possibili effetti della normalizzazione delle politiche monetarie. È un processo che vede Usa e Cina in prima fila, ma che è in parte già cominciato anche nell’Eurozona, che ufficialmente sta proseguendo il quantitative easing: le conseguenze per ora sono lente, prolungate, ma alla fine c’è il rischio che diventino pesanti. In questo contesto, come avevamo visto, il 2019 potrebbe essere un anno difficile con una congiuntura che rischia di vedere la fine del tapering da parte della Bce, i Fed Funds ben oltre il 2% e un'economia arrivata alla fine di questo lungo ciclo propulsivo.
È chiaro che se un simile fosco quadro dovesse cogliere impreparate le autorità monetarie, convinte ancora di potersi permettere di stringere i cordoni della borsa, andremmo incontro a un mezzo disastro, con gli asset rischiosi, tutto ciò che è legato agli emergenti, le commodity e l'azionario in via di disgregazione.
Visto il comportamento tenuto in questi anni è difficile però che si veda una Bce, una Fed e una Pboc stoicamente sulla linea dura, anche se occorre tenere conto della comprensibile voglia, espressa da alcuni membri di minoranza del board della Banca centrale statunitense, di fare scelte da falchi per avere poi maggiore margine di intervento di fronte a un’eventuale recessione.
Che cosa dunque potrebbe spingere a più miti consigli i banchieri centrali del mondo? Probabilmente un elemento chiave da tenere d’occhio nei prossimi mesi sarà il tasso d’inflazione. Infatti un’eventuale debolezza del rialzo dei prezzi sarebbe la spia di un'economia che non cresce, né a livello reale, né sul piano nominale; d'altra parte permettere alla Fed e agli altri di riferirsi al tasso di inflazione appare la scelta migliore.
Se infatti la crescita dei prezzi dovesse continuare a rimanere sotto target, pochi avrebbero da ridire su una pausa nei rialzi dei Fed Funds o nel tapering di Francoforte. Che poi tutto ciò con ogni probabilità si accompagnerebbe a un petrolio in caduta libera (sotto i 40 dollari per intenderci), un mercato azionario debole e sotto pesante rotazione dai temi growth verso quelli difensivi e un decennale americano sotto il 2%, in presenza per di più di una curva ultra-piatta.
Specificatamente, al raggiungimento di quale soglia d’inflazione dovremmo cominciare a preoccuparci? Ovviamente ciò è quasi impossibile da stabilire con esattezza: diciamo che una discesa del Cpi, sia europeo, sia statunitense, al di sotto della soglia dell'1% fornirebbe un chiaro campanello d'allarme. Aggiungiamo pure che un ritorno di diversi segmenti del reddito fisso nel territorio del rendimento negativo farebbe dormire sonni poco tranquilli.
Ricordiamo infine che un secondo round di deflazione o quasi deflazione globale potrebbe avere effetti molto più pesanti del primo, alla fin fine brillantemente affrontato grazie all'espansione dei bilanci delle banche centrali. In questo caso sarebbe necessario gestire una politica monetaria contraddittoria e la delusione da mancato boom. Quest'ultimo aspetto non va certamente sottovalutato, visti i movimenti del reflation trade degli ultimi mesi.
Come proteggersi da tutto ciò ? Già abbiamo visto qualche settimana fa come fosse adeguato tornare a puntare un po’ sulla duration, cioè sui bond a scadenze prolungate, nei rari momenti di debolezza del reddito fisso. A livello azionario probabilmente non sarebbe una scelta stupida mettere qualche soldo su titoli relativamente sottovalutati.