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Una piccola lezione dal Giappone
Fra i vari mercati in ripresa sull'azionario mondiale vi è quello giapponese: il Nikkei 225 ha toccato il proprio minimo relativo quest'anno il 23 marzo e da allora ha riguadagnato circa il 9,3%, anche se rimane negativo dall'inizio dell'anno di circa l'1%, un andamento in linea tutto sommato con altri benchmark importanti in giro per il pianeta. Questo movimento, però, si è accompagnato a una nuova fase di relativa debolezza dello yen contro il dollaro: la valuta giapponese si è portata dai minimi di marzo, coincidenti con quelli dell'azionario, da poco sotto quota 105 a quasi 110.
In pratica in questo secondo trimestre la divisa nipponica e l'equity locale hanno ripreso il refrain della correlazione negativa degli scorsi anni. In ciò si può trovare un indicatore importante per il futuro di questa piazza e di altre: infatti il fenomeno rappresenta in qualche maniera una delusione rispetto al primo mese dell'anno, in cui sia le quotazioni delle aziende del Sol Levante sia la moneta locale si rafforzavano. Era un periodo di grande fiducia nei confronti di una nazione che è passata in 30 anni dall'essere candidata al ruolo di super-potenza rivale degli Usa a sick man of Asia, superata per Pil pro capite nel continente da Hong Kong, Singapore e Taiwan, con la Corea del sud dietro l'angolo.
Iil paese era impegnato in una serie di riforme molto positive, soprattutto a livello di corporate governance. Gli ultimi mesi hanno invece riportato alla realtà un insieme di aziende sì interessante, ma anche molto ciclico e in grossa parte legato alla propensione al rischio degli investitori locali.
Se analizziamo alcune riforme attuate dalla (un po’ traballante) amministrazione Abe, alcuni risultati in effetti si vedono: il record storico di donne che lavorano (in percentuale oggi più numerose rispetto alle statunitensi), l'apertura del mercato del lavoro agli immigrati qualificati e una serie di misure a livello di aziende, che ad esempio hanno spinto il Nikkei ad avere attualmente un dividend yield superiore alla rispettabile soglia di 2,2%.
Visti i buoni risultati aziendali mostrati in questo trimestre, l'entusiasmo doveva essere tornato alle stelle per questa piazza, ma in realtà sembra che si stia assistendo a una delle tante congiunture favorevoli che si sono succedute in passato sul Nikkei, senza che però venga cambiato il trend stagnante di fondo, elemento testimoniato appunto dalla ripresa della correlazione inversa con lo yen. Al primo segnale di pericolo, hic stantibus rebus, è probabile che le azioni locali tornino pesantemente giù e che invece la moneta giapponese si rafforzi. Al di là dei problemi specifici del Sol Levante, questa gigantesca porzione dell'equity mondiale sembra costituire l'ennesima spia di un fenomeno peculiare: specificatamente tutto ciò che presenta caratteristiche value sta facendo sempre più fatica ad emergere. Quasi tutti i modelli di factor investing, a partire da quello celeberrimo di French e Fama, tendono a indicare che le azioni value sovraperformano quelle growth sul lungo periodo. Nell'ultimo decennio non è stato così: la regola ha tenuto nel periodo 2000-2008, mentre negli anni ‘90 il growth aveva dominato.
In pratica nell'ultima generazione per due terzi del tempo i classici assunti si sono dimostrati errati e oggi per le occasioni value i toni sono tutt'altro che ottimistici. Nel frattempo il Nasdaq ha messo a segno nuovi massimi storici: in pratica i mercati sembrano essere sospettosi di qualsiasi investimento che abbia alle spalle economie o settori a bassa crescita, non importa quanto bassi siano i prezzi a cui un titolo viene offerto. Ed è probabile che il fenomeno sia strutturale.