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Europa di nuovo in una fase di incertezza
Uno spettro si aggira per l'Europa, ossia il ritorno a una situazione di modesta crescita economica. Senza pensare a scenari apocalittici di semidissoluzione dell'Unione, di tutti contro tutti fra nazioni liberal/globaliste e paesi nazional-autarchici o anche al pesante coinvolgimento in una crisi turca dalle conseguenze molto più pesanti rispetto a quelle viste finora, è indubbio che c’è sia il rischio di un finale 2018 e, soprattutto, di un 2019 non particolarmente entusiasmanti.
La seconda metà del 2017 aveva messo in luce un’Europa in condizioni che non si vedevano dal 2007: la crescita su base annuale del Pil dell'Eurozona nel terzo e nel quarto trimestre dell'anno scorso è stata +2,8%. Si trattava di valori da autentico boom in grado di porre il Vecchio continente al di sopra degli Usa in termini di crescita (complessiva e ancora di più a livello pro capite) e alla pari delle economie del Nord-est dell'Asia.
Purtroppo, però, questo trend non è durato: su base congiunturale il Pil del primo trimestre del 2018 ha evidenziato un aumento dello 0,4%, mentre rispetto al quarto equivalente di un anno prima si è avuto +2,5%. Nel secondo trimestre si è scesi a +0,3% e a +2,1%; la seconda parte dell'anno probabilmente non porterà particolari sorprese positive. Infatti, se si deve giudicare dai dati più recenti, come ad esempio il Flash Pmi di agosto, sembrano più gli scricchiolii che i segnali di forza. Nel corso di questo mese, infatti, si è avuto un lieve innalzamento del Pmi complessivo, da 54,3 a 54,4, con però la minore creazione netta di posti di lavoro da 17 mesi a questa parte e aspettative ai livelli più bassi negli ultimi due anni in termini di ottimismo.
Vista anche l’elevata base di partenza del 2017, ormai il consensus sulla crescita del Pil dell'Eurozona si è attestato intorno a +1,7-1,8%. Si tratta di un valore più che rispettabile, ma ci sono alcuni elementi non da poco da tenere presenti. Innanzitutto l'accelerazione americana sembra ridotta solo agli Usa: grandi effetti (anzi) non si stanno vedendo, né sull'Asia, né sull'Europa. Alcuni potrebbero obiettare che nella prima metà dell'anno l'euro è stato forte e che con gli attuali corsi più bassi si potrebbe avere un minimo di spinta nell'area della moneta unica. Un fondo di verità probabilmente c'è, ma le oscillazioni del biglietto verde non sono state di tale portata in un senso o nell'altro da cambiare radicalmente il quadro.
L'Europa non sembra semplicemente in grado di riuscire a innescare un ciclo endogeno degno di questo nome, al netto di qualche annata migliore o peggiore di altre. In questo ambito non sorprendentemente si stanno andando a riaprire problemi di divergenza nell'andamento dei vari paesi, con al centro della negatività ovviamente l'Italia, la Francia un po' nel mezzo e il Nord Europa che, pur non facendo sfracelli, comunque tiene. Per quanto riguarda il nostro paese non ci sarebbe da stupirsi se alla fine del 2018 la crescita del Pil risultasse inferiore all'1%. Poco sopra tale soglia appare destinata a evolversi anche l'economia del Regno Unito, che al di là della Brexit rimane un partner importantissimo.
In questo contesto dunque non sorprende che gli asset europei abbiano fornito performance poco brillanti: dai minimi di fine giugno-inizio luglio, infatti, lo Stoxx 600 è cresciuto di circa l'1,9% (in valuta locale), mentre l’S&P 500 ha messo a segno circa +6,5%. Dall’inizio dell'anno il suddetto benchmark europeo a lunedì 27 è in calo di circa l'1,2%, cui va sommata la svalutazione dell'euro. Complessivamente si tratta di una performance molto simile a quella della Corea del Sud e peggiore rispetto al Giappone e Taiwan, tutte realtà che avrebbero dovuto avere subito un impatto pesante dal rallentamento cinese e dalle minacce di guerra commerciale in Usa.
Ovviamente tutto ciò ha lasciato gli asset europei in una situazione di forte sconto: varrà la pena analizzare se e come valga la pena investire su essi.