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Europa, venti non troppo favorevoli
Abbiamo già visto che le prospettive economiche europee, seppure al momento sotto controllo, non sono entusiasmanti. Con ogni probabilità, vista anche la base elevata da cui si parte, la seconda metà dell'anno porterà a un rallentamento della crescita del Pil su base annuale. Non è improbabile pensare che per il 2018 l'Eurozona debba accontentarsi di una crescita intorno a +1,8%. In questo ambito sono destinate a riaprirsi anche le divergenze fra le economie più forti e quelle più fragili del Vecchio continente. In particolare l'Italia appare come un outlier dalla crescita miserrima, ruolo che per la verità non ha mai abbandonato neanche nel 2017, quando la Penisola ha comunque mostrato il minore incremento del Pil in tutta l'Ue. Nel 2018 non ci sarebbe da sorprendersi se il nostro paese mostrasse un dato inferiore all'1%.
Ciò che è preoccupante è che sembra essersi interrotto il circolo virtuoso endogeno che si era visto nell'ultimo biennio, con una forte ripresa della domanda interna, soprattutto nell'ambito dei consumi, che peraltro anche nella fase attuale continuano a costituire la componente più brillante dell'economia continentale. In un paradigma di tale debolezza è difficile pensare a una forte ripresa degli asset rischiosi continentali. L'anno scorso aveva visto un (molto moderato) rerating dell'azionario europeo rispetto a quello americano sull'onda di una ripresa dei profitti che si accompagnava appunto a uno scatto di reni da parte di economie che finalmente non sembravano più dei moribondi dipendenti solo dalla flebo delle esportazioni.
Il rischio pesante oggi è ripiombare nel vecchio paradigma, con il più la mannaia incombente del protezionismo americano e la fine del quantitative easing europeo. Attualmente la crescita dei profitti continentali viene prevista quest'anno al massimo alla metà dell'equivalente statunitense, con il rischio che tale rapporto non superi il 40%. Questa divergenza fra la solitaria accelerazione made in Usa e quella che appare come una mean reversion dell'Europa verso la propria condizione naturale rischia di non rendere così conveniente in prospettiva futura lo sconto attuale dell'equity europeo.
Infatti, se analizziamo il P/E Cape, ossia il rapporto prezzi/utili calcolato negli ultimi 10 anni dell’Msci Europe, vediamo che esso attualmente oscilla intorno a 12, un valore alquanto inferiore rispetto a circa 23 dell’Msci Usa. Nello specifico uno scarto percentuale maggiore fra queste due grandezze a partire dall'inizio degli anni ‘80 si è registrato solo in due casi: a metà 2016 quando il P/E Cape europeo si posizionava intorno a 7 e quello statunitense intorno a 17, e nel 2012. durante le ultime fasi della crisi di tenuta dell'Eurozona. In tale frangente i valori equivalenti risultavano pari a 5 e 13.
Da allora il rerating europeo non è tanto avvenuto per chissà quale imponente crescita delle quotazioni, quanto per il fatto che nel calcolo di tale indicatore hanno acquisito sempre maggiore peso le annate più recenti, caratterizzate da scarsi utili. In pratica l'equity europeo è cresciuto in maniera piuttosto limitata, NONOSTANTE i risultati aziendali e non grazie a essi, a parte ovviamente il 2017.
Il rischio è che un pattern simile si ripeta in futuro: il gap a livello di multipli fra le due aree potrebbe infatti ridursi a causa di corsi Usa che salgono meno dell'andamento dei profitti locali. Questi ultimi però rischiano di mostrare un trend strutturalmente talmente più robusto rispetto alle controparti europee da garantire comunque una sovraperformance ai benchmark azionari statunitensi, anche a fronte di un derating di questi ultimi e a un rerating dell'Europa.
Se poi aggiungiamo il fatto che si cominciano a vedere segnali di contagio della debolezza europea dall'Italia alla Spagna, la conclusione è che, in termini di asset allocation (ovviamente occasioni di stock picking sono presenti in buona quantità in tutta Europa), altre aree appaiono più interessanti.