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La prossima recessione non arriverà nel 2019
L’inversione della curva dei tassi d’interesse statunitensi non sembra aver preoccupato più di tanto la comunità degli investitori istituzionali.
Secondo i dati raccolti ed elaborati da Bank of America Merrill Lynch (Bofa) nel corso della realizzazione dell’inchiesta mensile di aprile, l’86% dei money manager facenti parte del campione preso in considerazione non individua nel comportamento della curva dei rendimenti Usa un chiaro e inequivocabile segnale dell’approssimarsi della prossima recessione economica.
Alla fine di marzo il rendimento offerto dai titoli di stato Usa con scadenza a tre mesi ha cominciato a essere superiore a quello offerto dai Treasury Bond a dieci anni, un fatto che non si verificava dal 2007. In occasione delle ultime sette recessioni, dodici mesi dopo il materializzarsi dell’inversione della curva dei rendimenti l’economia statunitense è entrata in recessione.
Attualmente lo scenario di riferimento è molto diverso rispetto al 2007 e ancor più lo è se si tiene conto dell’introduzione delle misure di politica monetaria non convenzionali volute dalle più importanti banche centrali del pianeta (in primis la Federal Reserve) per far fronte alla grave crisi economico finanziaria scatenata dallo scoppio della bolla sui mutui subprime.
In quest’occasione, la caduta dei rendimenti sui titoli a lungo termine sembra spiegabile con la retromarcia innestata dalla Fed in materia di tassi nell’ambito del processo di normalizzazione del livello del costo del denaro. Dopo aver optato per ben nove volte nel corso del 2015 a favore di un ritocco al rialzo del costo del denaro, le minute relative all’ultima riunione del Fomc mostrano che la Fed ha confermato il suo compromesso con il target di garantire la stabilità economica del paese.
Di conseguenza, dinanzi a segnali di rallentamento dell’economia, il governatore della Fed Jerome Powell si è mosso per frenare l’ascesa dei tassi. Questo non significa che la Fed ha deciso di cambiare rotta perché i tassi hanno raggiunto il picco del processo di normalizzazione, ma che la banca centrale è pronta a cambiare idea ogni volta che le condizioni macroeconomiche lo richiederanno.
Il 53% del campione – il 15% in più rispetto all’inchiesta condotta nel mese di marzo- crede che la Fed non toccherà i tassi nel corso del 2019 e continuerà a mantenere un atteggiamento dovish e attendista per verificare il reale stato di salute di alcune rilevanti variabili macroeconomiche Usa. Soltanto il 13% degli intervistati crede che si tratti solo di una battuta d’arresto lungo il percorso che porterà a tassi ancora più elevati entro la fine del 2019.
In tutti i casi, la cautela è l’atteggiamento imperante tra i gestori. La ragione principale di questo approccio è dovuta all’indebolimento evidenziato da alcuni dati macroeconomici a livello planetario. Due terzi degli interpellati ritengono che la crescita e l’inflazione siano destinate entrambe a moderarsi nel corso dei prossimi dodici mesi. I gestori che ipotizzano una sorta di stagnazione secolare (intesa come un lungo periodo in cui la normalità sarebbero le fasi di depressione economica, intervallate solo da qualche periodo di crescita dell’economia) sono al livello più elevato dal 2016. Tuttavia, solo il 6% del campione crede che ci sarà una recessione nel 2019. Il 70% stima che l’inizio della prossima recessione possa verificarsi nella seconda metà del 2020.