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Cresce il fai da te in ambito finanziario
A prescindere dall’interesse dichiarato verso l’advisory, a fine 2015 circa il 40% dei decisori finanziari non aveva un consulente di fiducia
Più azioni, obbligazioni bancarie e statali sempiterne e poca consulenza. Si potrebbero sintetizzare così alcuni dei dati più interessanti emersi dalla relazione annuale Consob per l'anno 2015 appena presentata dal presidente Giuseppe Vegas alla comunità finanziaria.
Nel corso degli scorsi 12 mesi la partecipazione dei risparmiatori italiani ai mercati finanziari, espressa dalla percentuale di famiglie che investono in strumenti valutati come “rischiosi” (azioni, obbligazioni, risparmio gestito e polizze vita), è infatti cresciuta rispetto al 2014, passando dal 32 al 35%. Lentamente ci si sta avviando verso il valore registrato nel 2007, prima della crisi, quando la percentuale dei nostri connazionali che sottoscrivevano questi strumenti si attestava al 38%.
Rispetto al passato non è più l’investimento nei titoli di stato italiani a registrare il maggior tasso di partecipazione relativo degli investitori italiani (11%, era il 12 un anno prima), soppiantato dalle obbligazioni bancarie italiane (dal 10% nel 2014 al 12 nel 2015). Sono cresciute invece di circa un punto percentuale le partecipazioni al mercato delle azioni quotate italiane (da 3,5 nel 2014 a 4,5 nel 2015) e dei derivati, che arrivavano da valori sostanzialmente prossimi allo zero all’1,5%.
Con riferimento alla composizione della ricchezza finanziaria, sono cresciuti sia la quota allocata in depositi e risparmio postale (dal 48% nel 2014 al 52% nel 2015) sia il peso delle azioni (dal 5 al 6%). È invece diminuita l’incidenza degli investimenti in titoli di Stato e obbligazioni, rispettivamente, dal 13 al 10% circa, e dal 13 al 12%. Per le restanti attività finanziarie, il peso delle polizze è rimasto sostanzialmente stabile al 4%, mentre si è ridotto di un punto quello del risparmio gestito (dal 16 al 15%).
Analizzando le motivazioni alla base delle decisioni di investimento, il 90% circa dei decisori finanziari italiani (era il 70% nel 2014) dichiara di essere disposto a investire a condizione che siano garantiti la protezione del capitale e un rendimento minimo. Altri fattori sempre più determinanti dell’attitudine all’investimento sono i costi (per il 49%, era il 40% un anno fa), l’andamento del mercato finanziario (29%, era il 24% 12 mesi fa) e la trasparenza delle procedure, la chiarezza delle informazioni e la capacità di comprendere meglio i meccanismi di funzionamento dei prodotti. Si è ridotta, invece, l’importanza della fiducia nel consulente, ritenuta a fine 2015 rilevante dal 27% delle famiglie mentre era il 37% l’anno precedente.
Rimane relativamente marginale, seppure in aumento, l’attenzione verso la qualità del servizio di consulenza, indicata tra i fattori rilevanti solo dal 14% del campione (in crescita di quattro punti percentuali rispetto al 2014). Malgrado in alcune nazioni del Vecchio continente (Gran Bretagna e Olanda, in primis) rappresenti già una realtà consolidata, il servizio di consulenza in materia d’investimenti Italia non sembra ancora andare incontro ai gusti degli investitori, quanto meno di quelli retail. In linea con il dato dell’anno precedente, solo il 23% delle famiglie italiane dichiara di essere interessato al servizio di consulenza.
A prescindere dall’interesse dichiarato verso l’advisory, a fine 2015 circa il 40% dei decisori finanziari non aveva un consulente di fiducia. Nel restante 60% dei casi, la distribuzione degli investitori per tipologia di servizio mostra la scarsa diffusione della consulenza che, ai sensi della MiFID II, può essere qualificata come indipendente. Allo stesso modo risulta poco diffusa anche la fruizione di consulenza cosiddetta MiFID, ossia basata su proposte di investimento personalizzate. In poche parole, cresce il fai da te in ambito finanziario.