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Bce, prove di exit strategy
Le conseguenze di una diminuzione dell'acquisto mensile di bond da parte della Banca Centrale Europea, sarebbero certamente positive per l'intero sistema bancario - che oggi opera con margini di interesse inesistenti - ma negative per molti stati che non sono in grado di pagare rendimenti pesanti sui propri titoli.
Alla fine sulla stampa finanziaria e tra gli investitori è cominciato a emergere un problema che prima o poi (in realtà più prima che poi) va affrontato: che cosa succederà al quantitative easing dell'Eurozona? Nello specifico a causare nervosismo è stata la voce secondo cui la Banca Centrale Europea starebbe preparando un processo di diminuzione dell'acquisto mensile di bond, sia corporate, sia governativi, per prepararsi alla fine del programma prevista nel marzo 2017.
È indubbio che di recente siano emerse diverse perplessità sull'efficacia delle politiche monetarie mondiali e va aggiunto che questi dubbi non arrivano solo da comunità fortemente ideologizzate di nicchia o necessariamente da ambienti politici nord-europei ultra-ortodossi. Infatti i tassi di interesse negativi stanno mettendo in difficoltà molte istituzioni creditizie regionali o locali, che ovviamente dipendono in maniera piuttosto rilevante dal margine di interesse.
Dall'altra parte non è che gli effetti della politica monetaria si siano fatti sentire in maniera così determinante sull'economia reale, in particolar modo in Europa. Il Vecchio Continente, infatti, è caratterizzato da una domanda particolarmente debole per investimenti, verso la quale ben poco può fare il pur benvenuto miglioramento delle condizioni creditizie. A questo fatto si aggiunge che l'infrastruttura finanziaria continentale è parecchio banco-centrica con bilanci delle banche enormi e una struttura patrimoniale deboluccia, che poco consente di allargare troppo i cordoni della borsa.
Inoltre vista anche la minore presenza nei portafogli degli investitori, direttamente o indirettamente, di asset rischiosi rispetto agli Usa, risulta anche più debole l'effetto ricchezza generato dal rialzo delle quotazioni azionarie.
Allora a che cosa è servito e a che cosa può ancora servire il Qe di Francoforte? Essenzialmente ad azzerare i rendimenti dei titoli di stato (e non solo) nell'Eurozona. Ormai sembra infatti che sia trascorso un secolo da quando nella primavera del 2012 si rischiò il caos con un rendimento sul Btp decennale che aveva superato il 7% annuo. È vero però che curve dei tassi negativi creano a loro volta problemi non indifferenti per il futuro: basti pensare a tutti quegli investitori istituzionali come le assicurazioni che sono obbligate a detenere quote consistenti del loro portafoglio in titoli del debito pubblico che non pagano alcun interesse. Ma è altrettanto indubbio che gli stessi istituzionali hanno potuto approfittare in questi anni del più straordinario bull market nella storia del reddito fisso e che gli stati europei, non esclusivamente nella fascia sud, hanno potuto rimandare il redde rationem fiscale.
Proprio questo appare il punto debole e di maggiore incertezza di un cambio di strategia: cosa succederebbe ai bond dell'Italia, della Spagna ma anche della Francia, una volta tolta la droga monetaria? Ovviamente la risposta non ce l'ha nessuno: è possibile che si verifichi un ritorno alla crisi degli anni passati o che, al contrario, a causa di una strisciante deflazione e di una stagnazione economica, a fronte di rendimenti azionari e profitti aziendali modesti, gli investitori continuino a tenere allocata una parte consistente dei propri attivi in obbligazioni governative, anche di qualità non eccelsa.
Per il momento, comunque, la reazione dei mercati è stata tutto sommato modesta, anche perché nessuno sembra credere davvero alle voci giunte da Francoforte, il che probabilmente la dice lunga sulle reali possibilità di normalizzare davvero la politica monetaria: si tratta di un passaggio che comunque trova moltissimi ancora riluttanti.