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Una volatilità in fondo modesta
Nella nostra analisi su come affrontare il risk management di una posizione in azionario, specialmente in una fase come quella attuale, caratterizzata da lenta crescita economica (e dei profitti), valutazioni elevate e possibile inversione, se non fine, di un ciclo irripetibile dei tassi di interesse (in pratica uno degli scenari più rischiosi nei quali operare), abbiamo visto come creare uno strato addizionale di rendimento tramite l'incasso derivante da posizioni corte su opzioni call.
Nel nostro esempio abbiamo usato l'S&P 500 per una serie di ragioni: si tratta dell'indice a maggiore capitalizzazione del mondo con circa tre quarti dell'intero equity americano, e, grazie alle proprie dimensioni, alla competitività e alla diversificazione delle aziende rappresentate, l'azionario americano è uno dei meno volatili al mondo. Questo benchmark non vede infatti un bear market, definito come un calo di almeno il 20% dai massimi relativi, dal 2009, dopo averlo solo sfiorato nel 2011.
È interessante su questo punto analizzare un indicatore spesso usato dagli investitori: il cosiddetto Vix, un indice costruito con le volatilità implicite delle opzioni sull'S&P 500, ossia quelle ricavate dalle quotazioni delle suddette opzioni. In generale più queste ultime sono care, più il mercato si aspetta forti oscillazioni; in particolar modo se viene pagato un forte premio sulle put vuole dire che c'è una diffusa paura di cali seri.
In generale nel corso dell'ultimo decennio, dopo il picco improvviso di panico assoluto nel 2008-2009, la volatilità attesa dagli investitori è andata scemando, con periodici momenti di panico, a dir la verità su un orizzonte storico anch'esso di sempre minore entità. In pratica è come se gli acquirenti di azioni Usa si fossero abbandonati a una crescente compiacenza, senz'altro un effetto collaterale delle politiche di quantitative easing mondiale, con però alcuni momenti di fuga generale. Infatti poi la volatilità effettivamente realizzatasi sui mercati nelle fasi successive alla crescita dei prezzi delle put si è sempre dimostrata minore rispetto a quanto presupposto dalle quotazioni delle stesse. È come se nel retro del cervello degli istituzionali di tutto il mondo si alternasse una sempre maggiore compiacenza, con però i ricordi della grande crisi finanziaria che ogni tanto si fanno sentire.
Complessivamente, dunque, siamo in una fase storica di declino della volatilità, sia attesa, sia effettiva, con quest'ultima che è calata in maniera ancora più intensa. In pratica, invece di precipitarsi a vendere azioni nei momenti di difficoltà, i grandi portafogli rimangono sostanzialmente investiti, operando una rotazione verso settori più difensivi, le cui quotazioni sono spesso altissime, e precipitandosi a comprare strumenti di copertura, che non sono solo opzioni sulle azioni, ma anche Cds e derivati di credito su alcune emissioni high yield o sul debito pubblico di paesi più fragili come l'Italia.
Viviamo infatti in un'epoca di forte correlazione fra asset class rischiose e di profondi cambiamenti strutturali nella piramide del rischio percepito. Prima della grande crisi i Btp decennali presentavano uno spread con l'equivalente tedesco, anche se infinitamente inferiore, non solo in termini assoluti ma soprattutto come percentuale del rendimento del titolo risk-free tedesco, solamente nelle fasi di crisi e, a meno che non si trattasse di un problema specifico dell'Italia, tendevano ad attirare capitali in cerca di un rifugio sicuro e in fuga dall'azionario. Oggi invece non è più così e lo stesso fenomeno si rileva per alcuni strumenti di debito, quali i bond bancari e alcune classi di high yield: non sono pochi gli strumenti obbligazionari che nelle fasi di crisi dell'ultimo quinquennio hanno visto oscillazioni ben più brutali dei segmenti più solidi dell'azionario Usa.
Ora, per quanto riguarda il risk management di un portafoglio azionario futuro, si presenta un dilemma con due alternative: siamo di fronte a una massiccia sottovalutazione dei potenziali cali dell'equity, la cui volatilità è destinata a crescere e tornare entro parametri storici, oppure il processo sopra descritto è ormai un fenomeno strutturale irreversibile?
Vista la reazione tutto sommato calma che i mercati sembrano dimostrare anche di fronte all'addensarsi di nuvole, (basta vedere le vicende delle elezioni americane di questi giorni), si potrebbe pensare che la seconda ipotesi sia quella corretta. In realtà probabilmente la realtà è ben più complessa di così.