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Chi guadagna con il protezionismo
La scorsa settimana ha visto due avvenimenti, indubbiamente collegati tra loro, che potranno avere un impatto molto forte sugli anni a venire: l'insediamento di Donald Trump alla Casa bianca, con un discorso iniziale che non è stato certamente privo di spigolosità e che ha esortato a comprare americano e assumere americani, e le affermazioni del primo ministro britannico Theresa May sulla Brexit, che hanno promesso una separazione dall'Europa che dovrebbe comprendere anche l'uscita dall'unione doganale. In pratica la prima e la quinta economia del mondo stanno entrando in una guerra commerciale con quasi tutti e soprattutto stanno dando il via a un ritorno del protezionismo, qualcosa che nei paesi occidentali non si vedeva da molti decenni.
Al di là delle opinioni che si possono avere su questo fenomeno e al di là di quali programmi veramente verranno attuati (una cosa sono i discorsi e i proclami prima di andare a trattare, altra cosa è poi la realtà), occorre prendere atto che nei prossimi anni molte elementi potrebbero cambiare sui mercati e che forse è meglio adeguare le strategie di portafoglio. Vediamo, alla luce degli avvenimenti e dei propositi attuali quali sono i principali settori che potrebbero andare meglio in un mondo che riscopre il nazionalismo e il protezionismo. Ovviamente si tratta di un elenco minimo: un cambiamento epocale di questo genere comporta una tale quantità di variabili economiche e politiche che non possono certamente essere esaminate in poche battute. Ma sicuramente vale la pena cominciare a ragionare in questi termini.
Consumi. In un pianeta meno globalizzato, gli esportatori e le aziende che hanno ampiamente decentrato dovrebbero ovviamente soffrire di più. Al contrario chi produce per il mercato locale e si rivolge alla grande massa dei consumatori dovrebbe essere avvantaggiato: avrà meno concorrenza dai prodotti importati e, se le promesse di maggiore occupazione si avvereranno, ci dovrebbe anche essere una crescita della domanda interna. Inoltre la politica di protezionismo dovrebbe comportare un abbassamento generalizzato delle tasse, sia per le imprese, sia per i privati, tutti elementi che dovrebbero favorire i consumi.
Small e mid cap. Sempre nella medesima ottica, le piccole e medie capitalizzazioni dovrebbero trarre notevoli vantaggi dalla nuova politica: nella maggior parte dei casi si tratta di società che si muovono prevalentemente sui mercati nazionali e che hanno sempre sofferto la concorrenza delle multinazionali, che talora sono andate a occupare le loro nicchie. Anche in questo caso la leva fiscale dovrebbe avere un impatto molto forte: se le società che operano in tutto il mondo sono sempre riuscite a ottimizzare le loro imposte, le realtà più piccole sono sempre state esposte alle aliquote stabilite dal loro stato, con pochissime possibilità di migliorare la loro situazione.
Infrastrutture. Nell'ottica di una chiusura in se stessi, gli stati che puntano sul protezionismo contano di dare vita a un ambizioso piano di creazione di nuove infrastrutture: da una parte per creare nuovo lavoro, dall'altra per una maggiore attenzione per il proprio territorio. È quindi prevista un'alluvione di commesse statali. In questo caso, però, nelle scelte di portafoglio occorre molta attenzione: oggi le maggiori società che costruiscono infrastrutture sono aziende di dimensioni mondiali, in grado di gestire contratti in tutto il pianeta e difficilmente queste potranno essere avvantaggiate dal protezionismo. Al contrario aziende di medie dimensioni potrebbero ricavare notevoli vantaggi.
Energia. Anche in questo caso le società che producono energia negli Usa e nel Regno Unito rischiano di essere fortemente avvantaggiate: storicamente nelle fasi di autarchia l'energia è sempre stato un punto molto debole e le aziende che sono in grado di fornire materie prime prodotte e pagate con la stessa moneta locale hanno vantaggi non da poco.