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Emergenti, i campioni di oggi
Come abbiamo già rilevato, l'indice Msci emerging markets, anche se comprende i mercati di 24 nazioni, è di fatto dominato dalle azioni di tre paesi: Cina, tramite i depositary receipt di Hong Kong e americani, Corea del Sud e Taiwan. Se aggiungiamo Brasile e India, responsabili ciascuno per circa l'8% della capitalizzazione, si arriva a circa il 70% del totale.
A questo punto, però, è necessario specificare un paio di elementi: i pesi di ogni singola azione o particolare mercato cambiano di continuo a seconda delle quotazioni: ogni titolo aumenta o diminuisce il proprio peso percentuale a seconda che cresca o cali in maniera più intensa rispetto al resto dell'equity. In generale, infatti, gli indici sono costruiti sommando le capitalizzazioni di tutte le aziende coinvolte per poi essere divise per un determinato coefficiente.
Facciamo un esempio alquanto rudimentale per capire di che cosa si sta parlando: mettiamo che un indice sia composto di 10 titoli, cinque del paese A e cinque del paese B. In un dato momento queste azioni presentano tutte la stessa capitalizzazione complessiva, pertanto ognuna pesa per il 10% sull'indice, mentre ciascun paese rappresenta il 50% del totale. Ora mettiamo che arrivi un crollo di borsa che porti tutte le azioni di A a perdere il 9% del valore e tutte quelle di B a lasciare sul terreno l'80%: a quel punto l'indice si troverebbe con un livello complessivo pari a solo il 12,5% di quello iniziale. Sul piano delle percentuali relative, però, le cinque azioni di A vedrebbero accresciuta la loro quota fino a raggiungere il 16% ciascuna del peso complessivo dal 10% iniziale e A fornirebbe l'80% della capitalizzazione, dal 50% iniziale. B, in compenso scenderebbe al 20%, con ciascuna delle sue cinque società che ormai rappresenterebbe solo il 4%.
Ciò spiega perché, fino alla fine del 2015, il trittico asiatico, pur in presenza di performance scadenti, abbia aumentato la propria importanza nell'universo emergente. In un certo senso, dunque, in ogni momento investire su un indice significa puntare sui nomi di maggiore successo del passato. Ma la logica che sta dietro è che comunque anche rischiando sui più grossi cavalli all'apice della loro gloria e a rischio di futuro declino, in un'economia che cresce in maniera innovativa, si verrà compensati dal fatto di avere investito anche, all'interno dello stesso benchmark, sui futuri campioni in grado di compensare l'eventuale declino dei pesi massimi attuali.
Così ad esempio è stato per gli Usa e l'S&P 500: avere comprato l'indice 10 anni fa avrebbe significato puntare un bel po' di soldi su colossi petroliferi e finanziari poi rivelatisi deludenti, il cui declino però sarebbe stato più che compensato dalle performance stratosferiche dei colossi del Nasdaq. Oggi, invece, entrare sull'S&P 500 significa mettere una quota storicamente abnorme del proprio investimento in una manciata di titoli It.
Ora torniamo all'Msci Em: esso è diviso in 11 comparti, gli stessi dell'S&P 500. I due segmenti che a fine gennaio pesavano di più erano i servizi finanziari, con oltre il 24% del totale (a fronte del 14% circa per l'S&P 500) e l'It, che raggiungeva una quota di poco inferiore al 24%, mentre il suo equivalente statunitense arrivava al 21,3%.
Ovviamente è proprio nell'It che si concentra l'overweight del Far East ed è proprio da questo enorme complesso, nonché dalla mutevole natura di quella che è l'asset class emergente, che potrebbe passare un nuovo ciclo di sovraperformance dell'azionario emergente nei prossimi anni.