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Il delicato equilibrio cinese
Svalutazione dello yuan, pressioni inflazioniste, effetti sulle quotazioni delle materie prime, gestione del livello di indebitamento pubblico e privato, rapporti con gli Usa. Sono tante le variabili che Pechino dovrà manovrare con cura
In primo luogo, la svalutazione dello yuan potrebbe smorzare le pressioni inflazioniste (tanto attese dalla Federal Reserve e dalla Banca Centrale Europea) e provocare cadute nelle quotazioni delle materie prime perché la Cina è il maggiore consumatore globale di commodities. In secondo luogo, il deprezzamento della divisa avrebbe ripercussioni sulle tante società asiatiche che hanno approfittato del lungo letargo dei tassi statunitensi per aumentare il proprio indebitamento in dollari. Il volume di corporate bond in Cina è elevato ed ha sperimentato una rapida crescita negli ultimi anni.
Si tratta di un tema delicato perché la maggior parte di tale debito è denominato in usd. Ora che la Federal Reserve ha cominciato a discutere di normalizzazione della politica monetaria, l’evoluzione del cambio yuan/usd dovrà essere attentamente monitorata per riuscire a individuare quali imprese cinesi potrebbero incontrare serie difficoltà nel restituire i dollari ricevuti in prestito dai sottoscrittori dei propri bond.
In terzo luogo, l’incremento del livello di debito non sta sortendo i rendimenti attesi. Anche se il livello globale di debito non è alto per gli standard dei paesi industrializzati, può diventarlo, in caso d’impennata dei livelli di morosità o uno shock di domanda, per un paese come la Cina. Secondo i dati raccolti ed elaborati dalla BIS (Bank for International Settlements), il volume complessivo del debito denominato in usd rappresenterebbe approssimativamente il 12% del Pil cinese.
Anche se alcuni report diffusi la scorsa estate indicano un peso dei debiti potenzialmente morosi compreso nel range 15%-19%, la presenza di un tasso di crescita ancora elevato e un controllo assoluto del sistema finanziario da parte del governo, rendono per ora remota la possibilità di un tracollo del sistema.
Nonostante ciò, non sono pochi gli analisti che esprimono seri dubbi sulla sostenibilità del sistema finanziario cinese nel medio-lungo termine. La ragione? La bolla speculativa presente sugli asset cinesi non è scoppiata ma neanche scomparsa nel 2016: avrebbe solo cambiato localizzazione, passando dalle azioni agli immobili. Il settore immobiliare cinese, che ha subito un consistente raffreddamento tra il 2014 e la prima metà del 2015, ha recuperato il suo impeto nella seconda metà dell’anno scorso e continua a mostrare forti segnali di dinamismo dall’inizio del 2016.
Infine, tra i temi da non sottovalutare c’è quello del delicato rapporto con gli Stati Uniti derivante dal fatto che il gigante asiatico è –insieme al Giappone- il principale possessore di titoli di stato emessi dal Tesoro nordamericano. Dopo anni trascorsi ad accumulare freneticamente enormi quantità di Treasury all’interno del proprio bilancio (esercitando un’indiretta pressione ribassista sui rendimenti dei titoli di stato Usa), il secondo (il primo è il Giappone) possessore di Treasury ha ridotto la sua esposizione di ben 28 mld di usd, portando l’ammontare totale in suo possesso a 1.157 mld di usd (Fonte: Dipartimento del Tesoro Usa). Il dato si riferisce alle operazioni concluse a settembre e fa seguito alla sensibile riduzione registrata in agosto.
Le riserve internazionali della Cina, le più ingenti del pianeta, si sono ridimensionate fino a 3.120 miliardi di usd, una contrazione rilevante dal record messo a segno a giugno 2014, quando l’ammontare complessivo ha superato i 4.000 mld di usd in riserve di divisa estera (non solo dollari).