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Wall Street, un mondo che cambia
Avevamo visto che le aziende americane, hic stantibus rebus, si trovano in una situazione che ne prefigura, in termini di modello di business e possibilmente di rendimenti, una trasformazione in una sorta di utility. Da una parte infatti la sempre maggiore concentrazione all'interno dei vari settori sta portando in un numero crescente di segmenti dell'economia a un assetto quasi oligopolistico, dall'altra proprio il modello di business dominante si avvicina sempre più a questo peculiare tipo di aziende.
Pensiamo, ad esempio, all'elevato uso della leva: si tratta di una peculiarità che caratterizza le società di pubblica utilità e che rende i loro cicli aziendali particolarmente dipendenti dai tassi di interesse. Oppure possiamo concentrarci sul fatto che sempre più i prezzi applicati ai beni e servizi dipendono dalla regolamentazione di un'autorità statale: le infrastrutture, il comparto degli armamenti e quello sanitario sono tutti settori che dovrebbero vedere grandi trasformazioni, in un senso o nell'altro, durante l'amministrazione Trump. La stessa politica monetaria è un fattore decisivo per quanto riguarda la determinazione del saggio di profitto dei servizi finanziari.
Se poi aggiungiamo le supposte riforme in ambito legislativo e fiscale in una direzione maggiormente favorevole alle imprese, vediamo che dalla mano pubblica dipendono non poco le sorti della crescita degli utili delle maggiori aziende statunitensi e con essa la tenuta delle quotazioni del mercato.
Non a caso diversi investitori istituzionali calcolano che, nell'ipotesi di un moderato taglio alle tasse da parte di Trump, si potrebbero aggiungere 7-8 dollari (circa il 5-6%) all'anno all'Eps complessivo dell'S&P 500. Ciò, insieme ad altri fattori, potrebbe portare a una crescita cumulata dei profitti intorno al 15%. Con un P/E forward ormai alle soglie di 18, non ci sarebbe da stupirsi però se complessivamente l'indice crescesse un po' meno.
Come si può vedere, vi è un concreto rischio di stagnazione e una componente sempre maggiore dei guadagni arriverà dai dividendi. Come dicevamo, si tratta dell'avvento di un modello utility generale. La discriminante da questo punto di vista sarà costituita dalla Fed: se essa dovesse fare una manovra di normalizzazione vera dei tassi di interesse, probabilmente andremmo incontro al primo vero bear market da un decennio a questa parte. Le ultime due volte che è stato tentato ciò, a fine anni '90 e nel 2004-2006, le conseguenze sono state disastrose. Non ci vuole un genio per immaginare che in un sistema a elevata leva alzare il costo del denaro non porta a una buona situazione.
L'alternativa, nel caso in cui il costo del denaro rimanga molto contenuto e la crescita economica tutto sommato stagnante, anche se magari un po' più elevata rispetto al recente passato, è tornare a vedere una correlazione fra andamento economico e quotazioni di borsa nell'ambito di un paradigma di calma piatta per entrambi.
Le trasformazioni economiche di questi ultimi anni, dunque, fanno sì che non sia così scontato vedere un nuovo potente bear market da qui a breve, semplicemente perché le valutazioni sono molto elevate. L'S&P 500 potrebbe normalizzarsi, evitando crash e picchi di volatilità semplicemente mettendo a segno una serie di rendimenti annuali storicamente bassi, che peraltro probabilmente saranno comunque più elevati del loro corrispondente europeo,
In uno scenario del genere si aprono ovviamente margini per strategie profondamente diverse da quelle risultate vincenti negli ultimi anni.