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Mercati, i perché di scelte (quasi) irrazionali
Avevamo già avuto modo di vedere, analizzando i rendimenti azionari del 2017, che in un paio di casi, Europa e Giappone, si fosse verificato un rerating, mentre per l’Msci Emerging i multipli erano rimasti stabili, con gli Usa che ancora una volta li hanno ampliati. Avevamo anche visto che gli stessi Stati Uniti fossero risultati l'area del mondo con la minore crescita dei profitti, mentre erano in maggiore incremento l’Europa e, soprattutto, il Giappone. Praticamente solo gli emergenti hanno avuto l'andamento che si potrebbe aspettare, ossia un rialzo dei corsi paragonabile a quello degli utili più un modesto rerating.
Un andamento apparentemente così irrazionale, in cui vengono premiate le aree che hanno la minore crescita di utili e restano al palo quelle che vedono il rilancio dei profitti, può essere letto in due maniere complementari e in qualche misura non uguali. Da una parte semplicemente Europa e Giappone vantano una base di investitori equity piuttosto modesta rispetto agli Usa con una netta preferenza da parte dei risparmiatori per il reddito fisso. Se il terreno considerato è quello dell'allocazione in titoli europei, con una Bce che nel 2017 ha comprato 720 miliardi di euro di obbligazioni, diventando il primo possessore sul pianeta di corporate investment grade emessi da aziende dell'Eurozona, non si può nemmeno dare del tutto torto a chi ha preferito altre scelte rispetto all’azionario. Fra coco, subordinati di assicurazioni, convertibili e altri bond, il doppio motore di generazione dei profitti del reddito fisso, duration e spread, ha fornito un altro anno da leccarsi i baffi, almeno in alcune nicchie.
Se poi aggiungiamo la possibilità di operare succulenti carry trade su security in euro, finanziandole con yen e dollari, di cui per l'appunto le banche giapponesi sono le maggiori detentrici fuori dagli Usa, il gioco appare evidente.
Idem per quanto riguarda una delle grandi star dell'anno passato, i bond emergenti. In un portafoglio caratterizzato da un approccio di tipo risk parity, ad esempio, si può ottenere un profilo di rischio/rendimento simile a quello delle blue chip dell'Eurozona investendo con una certa leva sui governativi di diversi emittenti asiatici come l'Indonesia. Non sorprende che questa strategia stia trovando una sempre maggiore popolarità nella crescente base di investitori domestici in quella parte del mondo.
Dall'altra parte negli ultimi anni sempre più denaro istituzionale e retail è andato su strategie azionarie passive, soprattutto tramite Etf, con una forte preminenza per il factor investing. All'interno di quest'ultimo stile di investimento strategie come il momentum hanno goduto di particolare popolarità. Il che vuol dire che nell'ultimo decennio a dominare sono stati i temi growth, il che a sua volta comporta che una proporzione crescente di denaro è andata a collocarsi sui colossi di internet statunitensi e non solo. Infatti nei mercati emergenti in un decennio i giganti della rete sono andati a essere dominati dai gruppi della filiera dell'hardware elettronico di Taiwan e Corea più naturalmente il quasi-duopolio dell'internet cinese costituito da Tencent e Alibaba.
Insomma un ciclo che si è autoalimentato, che ha trovato senz'altro giustificazione nei risultati strepitosi delle migliori società (a differenza del libro dei sogni che era la new economy 20 anni fa) con però i soliti eccessi da bolla.
Dall'altra parte i titoli, dalle caratteristiche marcatamente cicliche, di Europa e Giappone faticano a suscitare entusiasmi comparabili. Nell’Msci Europe fra le prime 10 società per capitalizzazione tre sono major petrolifere, cui si accompagnano poi servizi finanziari e beni di largo consumo, non precisamente quindi i settori a crescita più rapida. Per quanto riguarda il Vecchio continente per certi versi il make-up dei propri listini assomiglia a quello degli emergenti nel primo decennio di questo secolo.
È sostenibile questa situazione? Il trend cambierà o si invertirà? La risposta richiede un ulteriore approfondimento.