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Greggio e dollaro su insieme, una pericolosa tenaglia
In questi giorni sui mercati c’è un fenomeno non comune, che si sta rivelando importante per le dinamiche attuali: la contemporanea forza del dollaro e del petrolio. Generalmente, la correlazione tende a essere inversa, ma in queste settimane non è così. Il Brent soprattutto ha mostrato un trend al rialzo che pochi si aspettavano, toccando di recente quota 80 dollari al barile. Attualmente ha ritracciato a 75, ma non manca chi vede a portata di tiro persino l'obiettivo di 100.
In parte ovviamente la ripresa si deve alle spaventose tensioni in Medio oriente, in parte alla mancanza di investimenti degli ultimi anni (nel 2017 il nuovo petrolio convenzionale scoperto è stato pari a un sesto del livello registrato nel 2012), in parte ancora alle azioni di contenimento della produzione di Arabia Saudita e Russia; infine ha contato anche il buon andamento della domanda. Quest'ultima è infatti comunque strutturalmente in crescita: secondo l'ultimo World energy outlook dell'International energy agency, la richiesta di prodotti energetici è comunque destinata a salire dal 2016 al 2040 di qualcosa come il 30%.
Ci sarebbero gli estremi per investire nel settore, compresi i servizi, nonché nelle economie maggiormente esposte al petrolio. In effetti il comparto dell'oil&gas globale nelle ultime settimane ha mostrato una certa vitalità: magari non saremo oggi nelle stesse condizioni del 2008, quando fu toccata il livello di 130, però anche il catastrofismo apocalittico del 2015-2016 sembra ormai uno scenario lontano, a testimonianza che raramente la razionalità la fa da padrona nei mercati delle commodity.
Questi elementi positivi si scontrano però con la forza del dollaro e l'attuale riflusso al di fuori dei mercati emergenti, almeno di quelli più in difficoltà, di una grande quantità di capitali. Questa strisciante avversione al rischio, finora è confinata solo a economie che francamente si meritano lo scetticismo da parte degli investitori, a meno che non si ritenga che Indonesia e Turchia nel corso di questi anni abbiano rattoppato i loro fondamentali, ma il problema è che la doppia tenaglia data da svalutazione/rialzo dei tassi/contrazione economica e crescita dei corsi dell'energia rischia di portare queste economie dritte alla stagflazione. In un quadro del genere neppure paesi come Brasile e Russia possono compensare la fuga degli investitori esteri con maggiori entrate dal commercio di petrolio e di gas.
Uno squilibrio di questo genere, peraltro, è tutt'altro che uno scenario comune: de facto non si verifica sui mercati dai primi anni ‘80, ai tempi del doppio shock petrolifero. Le incognite sono dunque tante: che cosa succederebbe, ad esempio, a una delle star assolute degli emergenti, l'India, che è un importatore netto di energia poco orientato all'export a fronte di un petrolio a 100 dollari e una rupia in caduta libera?
Queste ragioni rendono difficile pensare che il trend sia eccessivamente sostenibile: intendiamoci il petrolio sotto 30 dollari al barile semplicemente non aveva alcun senso: pensare che ci siano le condizioni però per un'ulteriore salita pare un po’ eccessivo. Il rischio infatti è che quotazioni così elevate facciano saltare il banco in diverse fragili nicchie sparse per il mondo.
Che cosa fare dunque di fronte al quadro attuale? Abbiamo visto qualche settimana fa come stare lunghi di dollaro, insieme ad altre divise (soprattutto asiatiche di paesi avanzati) rappresenti oggi una scommessa sensata. Vedremo come puntare nel vasto insieme del mercato dell'oro nero, anche se le scelte non sono sorprendentemente eccessivamente abbondanti.