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Un'Asia ancora fragile

20/06/2018

La ripresa dei furori Usa sul commercio internazionale ha dato una botta terribile ai principali mercati asiatici, Giappone incluso. Quest'ultimo dettaglio è interessante, poiché in qualche maniera rende obsoleta la categoria degli emergenti o quanto meno l'inclusione del Far east in tale gruppo. Il Sol Levante, infatti, è una nazione sviluppata da ormai circa mezzo secolo, ma ciò non toglie che la composizione del suo equity presenti caratteristiche simili a quelle di realtà neo-industrializzate quali Taiwan, la Corea o la Cina.

La maggior parte degli operatori ha avuto un atteggiamento decisamente bullish nei confronti di queste piazze finanziarie, ma questi ultimi avvenimenti meritano una riflessione. Al di là del fatto che vi sono in questi listini titoli azionari altamente ciclici che oggi si trovano nel mezzo di una fase di incertezza della congiuntura economica, e considerando che pure i comparti messi strutturalmente meglio, quelli legati all'elettronica, potrebbero temporaneamente essere giunti al picco, vi sono questioni di fondo da non sottovalutare.

La brutalità della strategia statunitense ha riportato infatti l'attenzione su un elemento fondamentale per queste economie: esse non sono ancora uscite dal mercantilismo globale che vede gli Stati Uniti come la spugna di ultima istanza in grado di assorbire tutta la capacità in eccesso del globo. Nel breve periodo questi problemi e incertezze risulteranno gravi a sufficienza da rendere difficile ottenere performance decenti dai listini emerging con un ammontare di volatilità accettabile.

Sul lungo periodo ovviamente la storia di crescita rimane intatta, con però un caveat: si sta delineando lo scontro fra due economie, Cina e Usa. Così l'intera fascia asiatica (non solo le nazioni più sviluppate) dipenderà, nel caso in cui la cuccagna statunitense diminuisca, sempre più dall'ascesa dei consumi cinesi. In pratica per il Giappone, per Taiwan, ma anche per la Thailandia e il Vietnam, la scelta è passare sostanzialmente da un mercantilismo all'altro. Economie più giovani come quelle delle Filippine e dell'Indonesia, dotate di mercati interni potenzialmente mostruosi, possono sperare di non dipendere eccessivamente dal Dragone. Corea e Giappone, alle prese con un rapidissimo invecchiamento della popolazione, non hanno molta altra scelta.

Per le economie mature dell'Asia l'unico vero motore di crescita è dato dalla continua ascesa di consumatori cinesi che ingoiano in maniera sempre più vorace anime nipponici, gastronomia taiwanese, drama televisivi e cosmetici coreani e così via.

Ma la transizione verso la centralità del consumatore della Repubblica Popolare non sarà né breve, né facile, soprattutto per il fatto che comunque il protezionismo di Trump nell'immediato va a colpire la Cina stessa. In concreto questa azione statunitense per la Cina significa una valuta più debole, con quindi meno potere d'acquisto per i propri cittadini (a fronte di benefici in termini di competitività probabilmente nulli, viste le tariffe), difficoltà per quei settori particolarmente ricchi di imprese statali da riassettare, come ad esempio l'acciaio e l'alluminio, e una bella gatta da pelare per il ruggente comparto dell'elettronica.

La Cina può sempre reagire con manovre di stimolo come ha fatto nel 2015-2016: in passato però esse hanno avuto un effetto quasi nullo sui listini azionari dell'area. La conclusione pertanto è che il Far east industrializzato rimane la zona più vulnerabile ai rischi di un’escalation delle tensioni sul commercio estero. Il potenziale di crescita di tutti questi listini rimane ampiamente superiore a quello europeo e pari a quello americano (una volta che un decente rerating avvenga), però questo potenziale ha un prezzo: la fragilità nei confronti di agenti esterni difficili da prevedere e ancora più complicati da gestire.

A cura di: Boris Secciani

Parole chiave:

Asia Usa Cina guerra commerciale
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