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Il rischio del rialzo dei tassi Usa
In un precedente articolo era stato affermato che i mercati per spingere al rialzo gli asset di un paese vogliono un programma pro-crescita credibile, di qualsiasi tipo esso sia, almeno nel breve-medio periodo. Nell'ottica di questo paradigma è interessante notare ciò che sta succedendo negli Usa, dove sono state varate riforme incentrate su un maggiore disavanzo dei conti pubblici e si è andati nella direzione di una maggiore deregulation. Il fatto che tutto ciò sia stato accompagnato da un atteggiamento aggressivamente protezionista e nazionalista ha portato gli Stati Uniti a detenere quest'anno praticamente il monopolio della crescita.
Il problema è che l'equazione bullish sta cominciando a venire meno, in quanto manca di un elemento fondamentale: assicurarsi i finanziamenti. Infatti già da qualche mese è chiaro che per il prossimo anno fiscale (1 ottobre 2018-30 settembre 2019) il deficit federale dovrebbe superare il trilione di dollari.
In sé non si tratta di nulla di drammatico, se non fosse che la Fed sta rialzando i tassi in maniera più rapida rispetto alle aspettative, mentre al contempo la venerabile istituzione sta anche riducendo le dimensioni del proprio bilancio al ritmo di 400 miliardi all'anno. Il risultato di tutto ciò è che gli interessi dei titoli del Tesoro stanno salendo in misura considerevole: il decennale, dopo mesi in cui il suo rendimento essenzialmente si è limitato a oscillare all'interno di un trading range compreso fra il 2,75% e il 3%, oggi è arrivato a sfiorare quota 3,25%.
In sé si tratta di un movimento tutto sommato modesto, considerando anche il fatto che la curva dei rendimenti si è appiattita ulteriormente nell'ultimo anno, anche se si è un po’ irripidita negli ultimi giorni. Gli investitori stanno però scoprendo una semplice verità che i maggiori banchieri centrali non sembrano avere particolarmente calcolato: continuamente a ogni crisi si lamenta l'eccesso di debito nel sistema, salvo creare ulteriore debito per potere innescare la ripresa. Ma non ci vuole un premio Nobel per capire che per tenere insieme la baracca bisogna rendere il servizio del suddetto debito sempre più contenuto.
Ovviamente nessuno sa con precisione qual è il punto di rottura dei tassi di interesse, ma non è irragionevole pensare che esso sia molto al di sotto del 5,25% raggiunto nel 2006 all'apice della precedente manovra di rialzi prima della grande recessione. Può l'economia americana reggere un livello sopra il 3%, con un decennale che a meno di sorprese potrebbe arrivare al 4%? In condizioni di forza eccezionale forse, allo stato attuale probabilmente no.
Infatti non va dimenticato che la crescita americana è sì molto forte attualmente rispetto al resto del mondo e alla sua media post-2008, nonché rispetto allo stadio così avanzato del ciclo, rimane però tutto sommato mediocre se confrontata alla media storica. Inoltre l'anno prossimo si partirà da una base più elevata, senza ulteriori stimoli fiscali. Il fatto poi che anche prima della grande crisi di questi giorni comunque la performance mediana fra i componenti dell'S&P 500 fosse praticamente pari a zero, con dunque un benchmark americano sempre più dipendente da relativamente pochi titoli, non fa ben sperare.
Infatti questo fenomeno tende a manifestarsi quasi esclusivamente nelle fasi finali di un bull market e peraltro ciò è successo anche nel 2017. Inoltre l'ultima volta in cui si è avuto per più di un anno di fila una performance mediana inferiore a quella dell'indice generale è stato nel biennio 2006-2007 e nel triennio 1998-1999-2000. Non esattamente ricorrenze di buon auspicio.