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Rialzo dei tassi, le ragioni di Trump
Non è la prima volta che tra i vertici della Federal Reserve, la Banca centrale degli Stati Uniti, e la presidenza si determina un conflitto, ma raramente era avvenuto con l’intensità attuale. Anche considerando che l’attuale presidente Jerome Powell è stato nominato da Donald Trump poco più di sei mesi fa e che oggi viene direttamente accusato di «dare i numeri».
In sostanza il presidente Usa sta affermando apertamente che la Fed si sta muovendo contro i mercati con un programma di incremento dei tassi molto forte: attualmente il tasso di riferimento degli States è a un massimo del 2,25%, con un incremento in arrivo di un altro 0,25% a dicembre. Nel 2019 i ritocchi verso l’alto dovrebbero essere altri tre: in pratica in circa un anno si dovrebbe arrivare a un costo base del denaro nella maggiore economia mondiale del 3,25%. La Bce, che opera tuttora con un tasso di riferimento dello 0%, ha promesso che almeno fino alla metà del prossimo anno non toccherà questa percentuale, mentre la Banca d’Inghilterra opera tuttora con lo 0,75% e la Banca del Canada è relativamente vicina alla Fed con l’1,50%. La Banca del Giappone continua nel suo perpetuo quantitative easing e ha un saggio base del -0,10%. In pratica tra i paesi sviluppati solo gli Stati Uniti si stanno portando su un livello di tassi così elevato.
A questo punto le critiche di Trump hanno davvero un senso oppure si tratta dell’ennesima battaglia mediatica intrapresa dallo scoppiettante presidente degli Stati Uniti? Vediamo in questo articolo gli elementi a favore della parte politica.
Danno alle imprese. Si tratta chiaramente dell’elemento più immediato: le società dovranno pagare il denaro molto più caro e saranno costrette a limitare gli investimenti, con conseguenti danni sull’occupazione e sui consumi, dando così il via a un vero e proprio circolo vizioso. Questa azione ha un effetto esattamente contrario rispetto al taglio delle imposte voluto dall’amministrazione, che consente alle società di avere più denaro a disposizione.
Inoltre i corporate bond, che tradizionalmente sono più sensibili agli aumenti dei tassi rispetto ai Treasury, rischiano di vedere una notevole impennata degli interessi, rendendo così ulteriormente difficile la vita per i gruppi. Non va dimenticato, del resto, che se si escludono le imprese più importanti e più famose che trainano il mercato, gli utili delle società Usa non sono poi così clamorosi.
Maggiori costi per lo stato Usa. In un momento in cui il deficit federale annuale sta arrivando a un trilione di dollari (il Pil Usa è circa 18,57 trilioni e il rapporto deficit Pil sale al 5,38%, roba che fa impallidire il nostro scandaloso 2,4%), alzare i tassi significa incrementare ulteriormente i costi dello stato: già oggi i Treasury a 10 anni sono al 3,16%, ma con il tasso di riferimento intorno al 3,25% sarebbe logico che schizzassero ben oltre il 4%. Se si considera che con il deficit federale in aumento sarà necessario emettere una maggiore quantità di titoli governativi, si rischia di mettere le casse di Washington brutalmente sotto pressione e sotto un ulteriore circolo vizioso: l’incremento delle spese porta la necessità di emettere più titoli, ma l’incremento dei titoli porta ad aumentare gli interessi e di conseguenza le spese del governo che a sua volta deve ulteriormente incrementare l’emissione di Treasury.
Rivoluzione del mercato obbligazionario. Un incremento di quella portata del tasso di riferimento e di conseguenza dei titoli di stato e dei corporate bond rischia semplicemente di fare crollare il mercato obbligazionario mondiale. Se il Treasury decennale desse il 4%, le altre obbligazioni dovrebbero adeguare i loro tassi di interesse e soprattutto i titoli già emessi a cedole inferiori perderebbero valore. Considerando che le banche di tutto il mondo sono piene di obbligazioni, i loro bilanci correrebbero seri rischi. In pratica ci sarebbe l’avvio di una serie di conseguenze che rischierebbero di creare una vera e propria valanga.
Dollaro. Indubbiamente l’azione della Fed incrementa il valore del biglietto verde. Per un paese che sta portando al suo interno un numero sempre maggiore di industrie che ovviamente devono esportare, muoversi con la propria valuta forte non è certo un vantaggio competitivo.
Conclusione. Come si può osservare, le ragioni di Trump hanno sicuramente una base tutt’altro che trascurabile e forse almeno un rallentamento del programma di rialzo potrebbe avere un senso. Ma le ragioni della Fed non sono certamente prive di motivazioni. Verranno esaminate in un prossimo articolo.