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Usa-Cina, il primo marzo incombe
All’ultimo meeting a Buenos Aires a inizio dicembre fra i capi politici delle due maggiori economie del mondo (ovviamente stiamo parlando di Cina e Usa) era stata stabilita una tregua di tre mesi nella querelle commerciale (e non solo) che ormai da oltre un anno ammorba i rapporti fra i due paesi. Da parte americana è sempre stato dichiarato che questa scadenza, intorno al 1° marzo, rappresenta una “hard date” da cui non si può prescindere. Passata tale data, se non verrà raggiunto un accordo soddisfacente fra le parti, l'amministrazione statunitense, qualora la si voglia prendere letteralmente, dovrebbe procedere con un nuovo round di tariffe doganali. Il che significa alzare dal 10% al 25% i dazi esistenti su circa 200 miliardi di merci importate dalla repubblica Popolare, con la possibilità di andare a coprire l'intero ammontare dell’interscambio, intorno al mezzo trilione.
Sicuramente le dichiarazioni dei politici vanno sempre prese con un minimo di beneficio di inventario, ma allo stato attuale una soluzione appare ancora lontana, in quanto non è stato organizzato ancora alcun summit fra l'imperatore d'occidente e quello d'oriente, mentre il primo dovrebbe vedere Kim Jong Un in Vietnam a febbraio. Il pericolo maggiore nella questione fra le due superpotenze globali è che si arrivi a un disastro tipo Brexit, dove nessuna delle parti in causa sembra avere più il bandolo della matassa e appare incapace di fornire una road map credibile verso una soluzione condivisa.
Il vero rischio politico oggi è dato da diversi fattori: uno è indubbiamente una diffusa scontentezza da parte di vasti ceti nelle maggiori economie del mondo nei confronti di tutto ciò che negli ultimi anni è stato definito come globalizzazione. Questa scontentezza si manifesta in un'ampia varietà di forme ideologiche, che vanno da Trump ad Alexandria Ocasio Cortez, da Podemos ai 5 Stelle e alla Lega, con però alcuni elementi ricorrenti di fondo, ossia che il sistema attuale per tantissime persone non funziona.
Dall'altra parte, però, il ceto politico e manageriale preposto a cambiare gli assetti attuali sembra non avere la più pallida idea di come correggere il tiro: questo vale per i governi occidentali, per quelli orientali, per quelli dei paesi latino-americani, per quelli dei paesi arabi petroliferi e così via. Dovunque ci si giri si trovano roboanti piani di riforme economiche e sociali: nel migliore dei casi tali progetti finiscono in nulla, nel peggiore vengono avviati e lasciati in mezzo al guado di fronte alle prime difficoltà.
Il vero rischio politico, difficilmente gestibile con tradizionali strumenti di mercato, appare proprio questo: un lento ma inesorabile scivolamento verso scenari incontrollati e caotici generati sostanzialmente dal dilettantismo generale. Per quanto tempo la guerra commerciale fra Usa e Cina è stata derubricata a poco più che schermaglie elettorali per poi ritrovarci all'improvviso in una nuova guerra fredda, che vede coinvolte in prima fila alcune delle maggiori società tecnologiche del pianeta? Un discorso simile vale per la Brexit: nonostante i sondaggi indicassero uno scenario di difficile lettura, sia il campo del remain, sia quello del leave davano per scontato che i britannici avrebbero scelto alla fine di restare. I due anni successivi sono poi stati sostanzialmente persi in questioni politiche da cortile.
Il deterioramento politico non è tanto dato da un singolo evento in uno specifico paese quando appare come un lungo piano inclinato che coinvolge l'intero pianeta in un processo di declino di lungo periodo. Pensare che conseguenze per i mercati non ce ne siano appare piuttosto illusorio. Basti pensare a quanto è successo l'anno scorso: un’annata che era partita sotto gli auspici di un quasi-boom economico è finita come è finita.