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Inflazione: il target del 2 pct è ancora un totem?
La revisione al rialzo del target del 2 per cento per l’inflazione potrebbe non essere più un tabù visti gli scarsi risultati che ha avuto finora la politica monetaria. L’operazione, secondo gli analisti, sarebbe prematura e sarebbero a rischio credibilità e indipendenza delle Banche centrali.
Negli ultimi anni il target del 2% per l’indice dei prezzi al consumo - assunto (negli anni ’90) dalle economie avanzate - è stato stravolto da un’impennata dell’inflazione che, di fatto, ha raggiunto i massimi da una generazione a questa parte. Abbiamo assistito infatti a una rincorsa delle Banche centrali ad alzare a più riprese i tassi d’interesse, dopo aver fatto rispettare senza grandi difficoltà l’obiettivo ufficiale per decenni. Questo, osserva George Brown, economista di Schroders, ha scatenato un dibattito sull’opportunità che i policymaker abbandonino il target del 2% e puntino invece a un’inflazione più elevata. La questione non è banale: i sostenitori di un target del 3%, o addirittura del 4%, sostengono che ciò comporterebbe tassi nominali più elevati. Condizione, questa, che darebbe più spazio alle Banche centrali di ridurre i costi di finanziamento in caso di recessione.
Il caso del Giappone
Si tratta di una soluzione apparentemente semplice al dilemma che ha afflitto i banchieri centrali negli anni seguenti alla crisi finanziaria globale. Ma ciò comporta problemi a sé stanti: uno di questi è se l’inflazione sarà in grado di convergere verso un target più alto. È una sfida che, ricorda Brown, la Bank of Japan conosce bene: 10 anni fa ha alzato il suo obiettivo di inflazione dall’1% al 2% nel tentativo di superare la deflazione cronica. Per aiutare l’inflazione nel suo percorso, ha avviato un colossale ‘quantitative easing’ che ha visto il suo bilancio gonfiarsi dal 30 al 130% del PIL. Insomma: non ha funzionato. A parte un aumento delle tasse nel 2014, l’inflazione è rimasta bassa, almeno fino al recente rialzo a livello globale. Sebbene l’economia giapponese sia in qualche modo unica, nello stesso periodo i suoi omologhi hanno lottato con un’inflazione persistentemente sottotono.
Si va incontro alla stagflazione?
Uno dei fattori è stata la crisi finanziaria, che ha aperto un output gap del 5,8% del PIL dei Paesi del G7 che ha richiesto diversi anni per essere ridotto. Un altro fattore è stata la globalizzazione, soprattutto dopo l’adesione della Cina al WTO nel 2001, e anche l’innovazione tecnologica e le disruption a essa collegate. Si può prevedere che alcuni di questi temi deflativi si invertano. Potremmo andare, ipotizza l’economista, verso un mondo meno globalizzato, in cui sicurezza e prossimità sono prioritarie rispetto a efficienza e costi che hanno caratterizzato il modello di catene di approvvigionamento estese. Ciò potrebbe portare a una maggiore stagflazione, con più inflazione e minore crescita. Un aspetto di questo cambiamento potrebbe essere l’attivismo fiscale, che porterebbe all’aumento dei target di inflazione delle Banche centrali o alla revoca della loro indipendenza.
Banche centrali meno indipendenti?
È inoltre possibile che i Governi diventino più generosi dal punto di vista fiscale, tenuto conto che le aspettative degli elettori sono cambiate a causa dei programmi di sostegno legati al Covid. L’attivismo fiscale potrebbe essere dunque un’altra fonte di pressione al rialzo sull’inflazione, nel breve e medio termine. Secondo l’economista di Schroders i percorsi verso una politica fiscale più attiva potrebbero includere anche la modifica del sistema bancario centrale da parte dei Governi al fine di poter gestire l’impatto della spesa aggiuntiva. Uno scenario, questo, in cui si ricorre alla regolamentazione per indirizzare i fondi verso il mercato obbligazionario, unito a modifiche del mandato delle Banche centrali per tollerare una maggiore inflazione, non è da considerare inverosimile se si dovesse assistere a cambiamenti nelle priorità politiche, complice il populismo.
L’incognita degli altri fattori
Sono sviluppi possibili, dove potrebbero agire altri fattori. Ci si chiede, ad esempio, se l’invecchiamento della popolazione sarà in definitiva inflazionistico o deflazionistico. Inoltre, le disruption tecnologiche potrebbero agire come un vento contrario all’inflazione, nel caso in cui l’intelligenza artificiale generativa porti a un diffuso trasferimento dei lavoratori. È inoltre discutibile se si debba tollerare un’inflazione più alta a meno che non si riesca a migliorare la crescita anemica della produttività. La maggior parte degli studi trova una correlazione negativa tra le due cose, ma il passaggio a un regime d’inflazione più elevata potrebbe contribuire a stimolare gli investimenti delle imprese. Ma se la produttività rimane bassa e altri Paesi non alzano i loro obiettivi di inflazione, si assisterà a una graduale erosione della competitività e del tenore di vita.
Le Banche centrali rischiano la credibilità
L’innalzamento dell’obiettivo, secondo Brown, rischia inoltre di danneggiare la credibilità delle Banche centrali, in particolare di Fed e Bce, che potrebbero dare l’impressione di non avere sotto controllo il problema e rischiare di disancorare le aspettative di inflazione al di là del nuovo target. È un terreno scivoloso: soprattutto perché il potere contrattuale dei lavoratori è elevato e dovrebbe rimanere tale di fronte all’invecchiamento della popolazione, al sentiment anti-immigrazione e agli sforzi di reshoring. Quindi, anche se l’inflazione sembra destinata a essere strutturalmente più alta in questo decennio, ciò non è garantito. Le Banche centrali devono prima raggiungere gli attuali obiettivi in modo sostenibile per garantire la credibilità. Finché questi criteri non saranno soddisfatti, è prematuro parlare di abbandonare l’obiettivo di inflazione del 2%.