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Azioni cinesi appese ai tassi Usa
Le autorità cinesi puntano a dare una relativa stabilità allo yuan perché la divisa cinese ha fatto il suo ingresso nel paniere delle divise aventi ‘diritti speciali’ per il FMI e non vuole che subisca sensibili deprezzamenti fino a quando la presenza nel paniere non costituirà un fatto accertato e stabile.
Come già accaduto nell’agosto del 2015 e a gennaio 2016, il tasso d’interesse interbancario a tre mesi di Hong Kong (Hibor) si è impennato. A metà settembre il rialzo è stato di 95 punti base fino al 4,21%, il livello più alto da marzo (stando alle rivelazioni ufficiali della Bank of China). Il rialzo del tasso Hibor espresso in yuan, in entrambe le occasioni citate, è sfociato in un calo della Borsa di Hong Kong.
Le pressioni derivanti dalle attese per l’avvio di un ‘processo di normalizzazione’ della politica monetaria Usa si fanno sentire anche sullo yuan. La Banca Popolare della Cina continua a impegnarsi per mantenere un tasso di cambio stabile rispetto al dollaro Usa. L’istituto cinese è intervenuto a più riprese sul mercato delle divise vendendo biglietti verdi e comprando yuan.
Questi tipi d’intervento, abituali nei paesi che adottano un tasso di cambio fisso, possono produrre alcune restrizioni della liquidità. La Banca Popolare cinese sta ‘drenando’ yuan dal mercato mediante queste operazioni, contribuendo alle fluttuazioni del tasso d’interesse interbancario espresso in valuta domestica. Le restrizioni alla liquidità provocate da tali interventi influenzano le quotazioni azionarie. Il tasso Hibor è un valore di riferimento per gli investitori che puntano sulla Borsa del gigante asiatico. Il suo aumento si traduce in un incremento del costo del capitale e questo non rappresenta un buon dato per i titoli di rischio.
Alla fine la Federal Reserve alzerà i tassi Usa. A quel punto, la Cina e i paesi emergenti dovranno trovare gli accorgimenti per resistere, nel migliore dei modi possibili, alle inevitabili turbolenze che ne seguiranno. I timori si concentrano sull’impossibilità, per la Banca Centrale cinese, di implementare una politica monetaria espansiva tale da supportare la stabilità dello yuan. I deflussi di capitali dal paese e il rafforzamento del dollaro Usa potrebbe ridurre i margini per tagliare il costo del denaro o il coefficiente di riserva degli istituti di credito. La sfida, per le autorità monetarie del paese, consiste nell’implementazione della politica monetaria di cui ha bisogno il paese e mantenere, allo stesso tempo, lo yuan saldamente ancorato al biglietto verde.
Per ora sembra che i mercati azionari asiatici ed emergenti stiano semplicemente vivendo uno dei loro rally periodici. Tuttavia, secondo Robin Parbrook, head of Asian equities, Schroders, abbiamo assistito a rialzi molto simili in modo regolare negli ultimi otto anni, al punto che ora questi guadagni appaiono come una “nuova normalità”. Anche le motivazioni citate in merito a questi rally sono quasi sempre le stesse, e cioè che i mercati azionari asiatici sono convenienti e che la ripresa economica sia imminente, che la Cina è riuscita a superare le turbolenze finanziarie e che l’economia si sta riequilibrando.
Secondo l’esperto, la realtà è che non è cambiato nulla in Cina, men che meno la visione che abbiamo mantenuto saldamente nel corso degli ultimi cinque anni e cioè che le banche cinesi, in scia alla maggiore bolla del credito mai vista al mondo, siano ora sedute su una montagna di sofferenze che potrà essere ripulita a un costo pari al 30-50% del Pil. In mancanza di seri sforzi riformistici, sostiene Parbrook, la Cina alla fine si avvierà verso la crisi finanziaria.