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Borse, tre crolli in sedici anni
Oltre a quella verificatasi all’inizio del 2016 in scia ai timori per le sorti dell’economia cinese, negli ultimi sedici anni le Borse mondiali hanno vissuto altre due grandi fasi ribassiste: nel periodo 2000-2002 e nel 2007-2009.
Entrambe presentano similitudini con il tonfo che si sta verificando in questo periodo, lasciando presagire la potenziale ripetizione di eventi drammatici. Tuttavia, è bene precisare che la radice delle ultime due crisi è molto diversa. Nel primo caso, il crollo è da imputare agli eccessi dei mercati finanziari: alle stratosferiche valutazioni raggiunte da alcuni titoli tecnologici, che trascinarono al ribasso tutti i principali indici (ma non tutti i titoli e non tutti i settori).
Il trend ribassista iniziato nel 2008 affonda invece le radici nell’economia reale, in particolare negli eccessi accumulati nel settore immobiliare. I problemi di questo settore hanno coinvolto quello bancario attraverso le operazioni di cartolarizzazione delle ipoteche subprime negli Stati Uniti. Il default di Lehman Brothers diede il via al tracollo, ma gli elementi alla base della crisi erano già maturi da qualche tempo.
Lo scenario attuale è caratterizzato dalla presenza di quotazioni azionarie che hanno tratto grandi vantaggi dai quantitative easing adottati dalle banche centrali. Nonostante il calo registrato all’inizio del 2016, le Borse sono considerate ancora oggi abbastanza care rispetto alle attese sugli utili aziendali (più negli Usa che in Europa). L’environment attuale sembra più fragile rispetto a quello del 2000 a causa del rallentamento della domanda cinese e dei suoi effetti nefasti sui prezzi delle materie prime.
Se nel 2008 il ruolo di detonatore della crisi fu svolto dal mercato immobiliare – con l’erogazione di crediti non accompagnati dalle dovute garanzie e la loro successiva cartolarizzazione-, adesso tale ruolo sembra essere stato ricoperto dal settore petrolifero (molte società stanno presentando utili in picchiata e una situazione debitoria insostenibile nel medio termine). Negli ultimi anni, numerose oil companies hanno emesso enormi quantità di bond. La persistenza del prezzo del barile intorno ai trenta usd non consente di realizzare flussi in entrata tali da poter far fronte alle obbligazioni in scadenza. Questa è stata la causa principale della crisi del segmento high yield bond negli Usa.
Una differenza rilevante tra il crollo del 2008 e quello visto a inizio 2016 è l’effetto sorpresa: otto anni fa nessuno si accorse dell’arrivo della crisi finanziaria, né tantomeno che una banca del livello di Lehman potesse tracollare in quel modo, dando vita alla necessità di salvare mezzo sistema bancario statunitense con il ricorso a soldi pubblici. In quel periodo, quasi tutti si aspettavano un dietrofront dei valori immobiliari ma non gli effetti devastanti a esso collegati.
Lo sprofondamento del mercato immobiliare nel 2008 sancì la sconfitta della maggior parte degli investitori. L’unica eccezione è data da pochi hedge funds capaci di prevedere l’inversione di tendenza. Adesso, il calo del petrolio non ha lasciato solo perdenti –i paesi produttori e le compagnie petrolifere- ma anche vincitori: i consumatori, che possono fare il pieno di carburante a condizioni meno penalizzanti rispetto agli ultimi anni e destinare una quota di reddito per altri consumi o risparmi. Altra differenza tra le due fasi Orso risiede nei volumi e nei possessori di junk bond in circolazione: ora sono molto più bassi rispetto a quelli generati dai prestiti subprime e sono per lo più nei portafogli dei fondi e non nelle mani delle banche.
Il punto più dolente per l’investitore retail è l’attuale impossibilità di ottenere rendimenti soddisfacenti dalle cedole dei titoli di stato più sicuri. Nel 2008 era possibile abbandonare il mercato azionario e dirottare i propri risparmi verso titoli di stato tedeschi e francesi che, sulle scadenze a dieci anni, offrivano cedole vicine al 4%. Adesso questo non è possibile e il Bund tedesco decennale offre rendimento vicini alo zero.