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E alla fine arrivò la Fed
Alla fine lo scorso mercoledì è arrivato il secondo rialzo dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve nell'era post-quantitative easing e crisi finanziaria. Con questo annuncio la Banca centrale americana ha portato il tasso di riferimento, quello sui Fed Funds, in una fascia da 50 a 75 punti base.
Vale la pena iniziare l'analisi innanzitutto chiarendo che cos'è il tasso di riferimento associato al generico “alzare/abbassare i tassi” da parte delle autorità monetarie statunitensi. Con questo termine si intende il tasso di interesse che le banche praticano fra loro per prestare le riserve in eccesso, rispetto i minimi richiesti per legge, che detengono presso la Fed stessa. In pratica questo tasso è un obiettivo che la Fed raggiunge intervenendo con operazioni di mercato aperto per iniettare o togliere liquidità, manipolando così il costo del denaro su un segmento peraltro molto piccolo dell'interbancario.
Questa pratica ha però, come per molte manovre delle banche centrali che lavorano sul proprio tasso di riferimento, diversi scopi. Innanzitutto si vuole in qualche maniera influenzare i tassi a breve sul sistema interbancario privato (il repo, gli swap e il libor) e i rendimenti delle scadenze brevi dei titoli di stato. Dall'altra parte queste manovre vanno inevitabilmente a influenzare i tassi a più lunga scadenza, il loro differenziale con quelli a breve e di conseguenza anche quelli forward. Inoltre, e forse tale aspetto è diventato preponderante negli ultimi anni, le manovre sul costo del denaro costituiscono una specie di commento sulle prospettive economiche e inflative da parte della Banca centrale.
Che cosa si può dunque ricavare da questo punto di vista? Che la Fed vuole senz'altro uscire dai tassi a zero, cosa evidenziata anche dal rapido bear market sui Treasury a maggiore scadenza per ragioni collegate alla struttura della curva dei tassi, ma l'istituto di emissione ritiene anche che l'economia cresca comunque a ritmi decenti. Infatti Janet Yellen ha comunque sottolineato le buone condizioni complessive dell'andamento statunitense, nel suo prevedere tre ulteriori rialzi nel 2017.
Al contempo, però, ci si rende perfettamente conto che siamo entrati in un'era di debolezza strutturale nel trend del Pil nominale, che non potrà essere modificata più di tanto neppure dai piani di doppio stimolo (spesa pubblica e taglio alle tasse) promessi da Trump, tanto che la stessa Fed ha sottolineato ancora una volta che si trova a operare in una nuvola di incertezze.
È difficile pensare che avremo sia una significativa inflazione, sia una forte crescita: è possibile però vedere miglioramenti in uno dei due fronti. O l'economia si rafforzerà, con però sempre una scarsa pressione sui prezzi per via dei fattori secolari più volte descritti (invecchiamento della popolazione, nuove tecnologie, aumento della produttività nell'estrazione delle materie prime) oppure potremmo finire in uno scenario stagflativo.
In entrambi i casi è difficile vedere una Fed davvero falco: nel caso benigno non verrebbe comunque meno la consapevolezza che anche dopo la crisi finanziaria la montagna di debito globale ha continuato ad aumentare, rendendo l'equilibrio finanziario instabile: super-tassi e super-dollaro (oltre una certa soglia) sono micce che potenzialmente potrebbero portare brutali instabilità. Non si può infatti dimenticare che le ultime due manovre di rialzo da parte della Fed con Greenspan e Bernanke furono foriere di due brutali mercati ribassisti sugli asset rischiosi.
Per quanto riguarda invece lo scenario stagflativo abbiamo visto nel corso del primo decennio del secolo, diciamo fino al 2011, che le maggiori banche centrali del mondo, Bce inclusa alla fin fine, siano più che disposte a tollerare aumenti dei prezzi sopra il livello target, per non rischiare di destabilizzare il sistema.
Prossimamente vedremo come coprire un portafoglio azionario dai rischi derivanti da questi due scenari.