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Povero dollaro
In questo 2017 finora la vera sorpresa, che ha scompaginato un po' tutti i piani degli strategist istituzionali, è stata l'improvvisa debolezza del dollaro. Qualche mese fa il biglietto verde sembrava destinato a rompere la parità con l'euro, a toccare nuovi massimi verso le valute emergenti grazie al forte rimpatrio di capitali e al fatto di trovarsi con un complesso di tassi reali molto più elevato rispetto al passato.
L'accelerazione economica data dall'espansionismo in deficit di Trump e il rialzo dei tassi da parte della Fed avrebbero infatti dovuto indurre un afflusso di capitali verso l'America come mai si era visto prima, ma sappiamo tutti come è andata a finire. L’elemento interessante e inquietante in termini di asset allocation è rappresentato dalla dinamica con cui si è arrivati contro l'euro e diverse altre divise al più rapido movimento di svalutazione mensile degli ultimi cinque anni. Infatti la delusione verso la Trumpnomics è stata un work in progress, prima lento, addirittura quasi impercettibile, e poi evidente.
Prendiamo l'andamento nei confronti della moneta unica: le quotazioni sono passate da circa 1,05-1,06 di inizio anno alla soglia di 1,10 a fine aprile. Ancora a fine giugno si scambiava intorno a 1,12, mentre attualmente siamo a 1,18. Il Dollar index è passato da circa 103 a 100 nel periodo gennaio-aprile e da lì in poi è giunto ai circa 93 attuali. Pattern simili si sono avuti nei confronti dello yuan, che nei primi giorni di quest'anno scambiava a 6,93-6,94, un valore non molto lontano dai circa 6,9 mostrati ancora ad aprile, ma oggi siamo intorno a 6,71. Come si può notare da queste cifre, il movimento è stato particolarmente forte nei confronti dell'euro, che si è dunque rivalutato anche contro divise comunque dall'andamento solido.
Il fenomeno è banalmente dovuto ad aspettative di inflazione, tassi a breve reali e nominali, tassi a lunga non più così favorevoli al biglietto verde come qualche mese fa, con una Yellen tornata a pieno titolo nel ruolo di colomba (anche se appare difficile attribuire asprezze di converso a Draghi e all'attuale board della Bce). Ciò che però in epoca recente, diciamo a partire dagli anni ’80, non era mai successo, se non in misura molto meno intensa nel periodo 2003-2007, è vedere un quadro di crescita economica non trascinato dagli Usa.
Siamo oggi nel raro, rarissimo, scenario di vedere un'America che appare deludente rispetto al resto del mondo. Intendiamoci, sfasamenti nel ciclo economico sono naturali e spesso gli States hanno avuto la capacità di superare le difficoltà prima degli altri e di conseguenza di rientrare in crisi in anticipo rispetto alle altre economie, ma oggi siamo di fronte a un'accelerazione economica globale che vede la prima potenza del pianeta rimanere relativamente indietro. Qualche mese fa avevamo analizzato l'andamento dei mercati, combinato con la valuta, rispetto al Pil ed era risultato che, se non una correlazione lineare, quanto meno sul medio periodo un fenomeno di mean reversion nei confronti dei fondamentali economici appariva evidente.
Oggi ci troviamo di fronte a una versione particolarmente rapida di questo fenomeno. Ciò che è impressionante, però, è la velocità con cui si è passati dall'innamoramento alla delusione nei confronti delle politiche di Trump. Una delle conseguenze immediate è stata di avere reso il mercato valutario decisamente volatile rispetto agli altri mercati. Se infatti la standard deviation annualizzata del cambio euro-dollaro e dei rendimenti giornalieri dell’Msci World oscilla intorno a valori simili (circa il 9% per quanto riguarda il cambio e intorno al 10% per quanto riguarda l'azionario globale), nel caso dell'equity su questo parametro vi è stato un calo di circa il 70% dai picchi del 2011 e di circa un terzo per il cross fra divisa europea e americana.
Questo a significare che in un'evoluzione verso una sempre maggiore calma dei mercati la maggiore vivacità è rimaste fra le valute. Vedremo perché ciò rischia di costituire un serio problema.