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Neanche la Bce è onnipotente
Lo scorso giovedì c’è stata la riunione mensile della Bce, il cui effetto principale è stato di spingere l'euro a un nuovo massimo del movimento degli ultimi mesi, non lontano dalla soglia di 1,21 sul dollaro. Il risultato è tutto sommato peculiare, se si tiene conto del fatto che i messaggi che sono stati dati da tutti gli esponenti della Banca Centrale Europea hanno forse toccato un nuovo picco di dovishness (atteggiamento permissivo) nella storia dell’istituzione.
Per il momento non è stata fornita nessuna indicazione per i successivi passi in materia di tapering (progressiva uscita dal quantitative easing), ma è possibile che in questo ambito qualche dettaglio in più arrivi a ottobre, mentre altrettanto in sospeso è il discorso sulla normalizzazione dei tassi a breve.
Infatti quello applicato sui depositi detenuti dagli istituti di credito presso Francoforte è ormai a -40 punti base e forse, secondo diversi analisti e investitori, il 2018 vedrà un modesto processo di normalizzazione. Per il momento sul mercato monetario non si vede nulla di tutto ciò: ad esempio l'Eonia 1y1f (il tasso forward a un anno sulla durata di un anno), quindi su un orizzonte temporale per il 2018-2019, è in territorio negativo per circa 30 punti base.
I danni apportati dal livello attuale del costo del denaro sono notori: specificatamente una minore redditività da margine di interesse per quegli istituti, specialmente tedeschi, che vedono i volumi di prestiti erogati crescere con un parco di clienti, imprese e consumatori, in grado di reggere maggiori pagamenti per interesse. Non sorprende pertanto che, anche in vista della tornata elettorale nella Repubblica Federale, voci anti-quantitative easing siano tornate a farsi sentire in Germania. Allo stesso tempo, però, le autorità monetarie europee chiaramente non se la sentono di intervenire con un processo di normalizzazione, che è stato complicato anche dall'improvvisa forza della moneta unica.
Le quotazioni della valuta in teoria non hanno mai costituito uno degli obiettivi della Bce, ma è indubbio che la debolezza degli ultimi tre anni una buona mano alla ripresa europea l'ha data, non solo in termini di export, ma anche per allontanare lo spettro della deflazione. Il rischio Giappone, infatti, è ormai costantemente dietro l'angolo: se l'aumento dei prezzi al consumo nell'Eurozona quest'anno dovesse non superare quota 1,2-1,3% e l'euro non ne volesse sapere di perdere un po' di terreno sulle altre valute, non ci sarebbe da sorprendersi se nel 2018 si scendesse in termini di inflazione sotto l'1%. In pratica, nonostante gli indubbi progressi sul piano della domanda domestica, sia a livello di consumi, sia di investimenti, si rischia di tornare in un quadro di scarsa crescita del Pil nominale in Europa.
E in effetti qualche segnale di stallo comincia a esserci, il che, al di là della contingenza, crea un grosso di rischio di incertezza per i mercati. Come abbiamo visto qualche mese fa, infatti, il pericolo è che i futuri passettini verso una normalizzazione delle politiche monetarie globali vadano a influire con effetti nefasti sui mercati, magari nel 2019. Se a questo fenomeno di accumulo aggiungiamo una Bce in fase di stasi acuta, non in grado quindi di offrire ai mercati un sentiero di normalizzazione accettabile, si può capire che qualche nuvola sull'orizzonte ci sia, la cui presenza è confermata da un Bund decennale che in un mese e mezzo ha visto dimezzare il proprio rendimento (da 60 a circa 30 punti base), con performance ancora più spettacolari nella parte a breve della curva tedesca, mentre il mercato azionario europeo, con lo lo Stoxx 600, ha visto un andamento specularmente opposto.
Per risolvere i problemi servirebbe un'accelerazione globale da parte degli Usa e che l'Asia non andasse a mettersi in crisi con tensioni militari assurde. A essere chiaro è che l'Europa ciò che poteva fare sul piano endogeno l'ha già fatto.