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Petrolio, il miraggio di quota 80
Vediamo l'ultima delle previsioni particolarmente ottimistiche per il 2018, incentrata in questo caso sul petrolio, che potrebbe arrivare al picco di 80 dollari al barile. Il greggio sembra avere trovato attualmente un certo equilibrio, con il Brent che da un paio di mesi scambia nell'area fra 62 e 64 dollari al barile, dopo la grande ascesa di fine estate/inizio autunno, che ha spinto i corsi al rialzo dalla zona intorno a quota 50.
Quello attuale è un prezzo al quale l'industria estrattiva può vivere, anche se al livello odierno del benchmark americano, il Wti, che è intorno a 56-57 dollari, una buona parte delle società dello shale statunitense ancora non è in grado di generare free cash flow positivi, mentre gli investimenti delle major sono tuttora ridotti al lumicino.
Allo stesso tempo la domanda appare solida: l'Agenzia Internazionale per l'Energia stima che la richiesta per il 2017 risulterà in aumento dell'1,6% per un totale di oltre 1,5 milioni di barili al giorno in più rispetto ai 12 mesi precedenti. Per il 2018 viene previsto un ulteriore incremento di 1,3 milioni di barili, pari a +1,3%.
Come si può vedere, nonostante una crescita economica strutturalmente meno forte, tecniche sempre più avanzate di efficienza energetica all'orizzonte e l'ascesa delle auto elettriche, per il momento il mondo continua a consumare sempre più petrolio: la domanda giornaliera sta avvicinandosi a 100 milioni di barili al giorno, mentre nel 2007 in pieno boom, poco prima dell'avvento di un decennio di crisi e di trasformazioni, si era fermi a quota 85 milioni. Insomma non sarà il peak oil, ma neppure ci si può permettere troppo a lungo di non investire, considerando che tra l'altro circa un decimo degli asset esistenti si esaurisce ogni anno.
Intendiamoci, di petrolio ce n'è tanto: si va dallo scisto statunitense a nazioni come Iran, Libia e Iraq che pompano molto meno di ciò che potrebbero e a prodotti non convenzionali, come le sabbie bituminose dell'Orinoco in Venezuela. Il problema è che i prezzi attuali rimangono complessivamente bassi per intere nazioni che dipendono da questa risorsa e devono venire incontro alle aumentate pretese di una crescente popolazione: non a caso viene utilizzato sempre più spesso un indicatore sintetizzato dal cosiddetto prezzo di break even a livello fiscale, ossia le quotazioni dell'oro nero che permetterebbero ai paesi produttori di pareggiare i conti pubblici. E talora questo prezzo è drammaticamente inferiore alle necessità.
In un ambiente come quello attuale non sorprende che l'Opec (de facto i sauditi) e i grandi produttori extra Opec, come la Russia, abbiano rinnovato per tutto il 2018 i tagli alla produzione in vigore da più di un anno e finora abbiano mostrato tutto sommato un discreto livello di disciplina nel mantenerli. Questo accordo dovrebbe togliere dal mercato oltre 1,8 milioni di barili al giorno, riuscendo forse per la prima volta da gran tempo a eliminare l'eccesso di offerta. Quest'anno peraltro il surplus dovrebbe essere ridotto a circa un milione di barili al giorno, il livello più basso da cinque anni a questa parte. L'obiettivo dell'Opec è riportare le scorte alla media dell’ultimo quinquennio, nonostante attualmente esse siano ancora oltre 150 milioni di barili rispetto a questa media.
Questo risultato potrebbe non essere raggiunto per via della sempre crescente produzione statunitense: se nel 2018 dovesse schizzare significativamente sopra 10 milioni di barili giornalieri (attualmente siamo intorno a 9,8 ), difficilmente ci sarebbe spazio per lo scenario super-positivo. Se però anche l'industria statunitense dovesse venire a patti con la realtà, restasse la situazione di caos e incertezza totale che regna in Medio oriente, continuassero i buoni fondamentali e reggesse il quadro economico di molti grandi produttori, che è appena un po’ migliore rispetto al disperazione di un biennio fa, allora gli 80 dollari di quotazione ipotizzati non sarebbero più un miraggio.