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Il lento risveglio dell’inflazione
Per capire perché l’inflazione sta tornando, vale la pena di considerare innanzitutto perché è sparita. La risposta sta nelle insolite circostanze economiche che sono prevalse all’inizio della crisi finanziaria globale.
Di norma, dopo che la disoccupazione è scesa al di sotto di un certo livello, il cosiddetto output gap, ovvero la differenza tra la produzione effettiva e potenziale di un’economia – è azzerato e l’inflazione inizia a crescere. In parte, ciò avviene in quanto i datori di lavoro competono per un numero di lavoratori disponibili sempre più ridotto, aumentando gli stipendi, che, di conseguenza, vengono spesi in merce. Dopo un certo punto, una maggiore spesa conduce all’aumento dei prezzi.
Questa relazione è nota con il nome di curva di Phillips. Poiché di recente questa relazione non ha funzionato, alcuni economisti ritengono che stia diventando irrilevante: l’indice statunitense PCE (relativo alle spese personali) esclusi cibo ed energia è cresciuto di solo l’1,5% annuo a dicembre, un dato ben inferiore al suo obiettivo del 2%, anche se la disoccupazione è prossima al suo livello minimo.
Potremmo affermare che esistono due chiare spiegazioni al recente bizzarro comportamento della curva di Phillips. La prima è costituita dai livelli molto bassi di inflazione all’inizio dell’ultima recessione e la seconda dalla globalizzazione.
Patrick Zweifel, chief economist di Pictet AM, ritiene che gli Stati Uniti si stanno finalmente scrollando di dosso gli ultimi effetti della crisi finanziaria globale e l’economia mondiale sta tornando in salute. Entrambi questi fattori favoriscono un’accelerazione dell’inflazione statunitense nel breve termine e in misura maggiore rispetto a quanto gli investitori potrebbero immaginare, sebbene la recente volatilità del mercato suggerisca un risveglio non privo di rischi.
E poiché i fattori che frenano l’inflazione non rientrano nel calcolo dell’indice dei prezzi, soprattutto i prezzi delle materie prime e i movimenti dei tassi di cambio, esiste un rischio significativo che il PCE (l’indice relativo alle spese personali), la misura della pressione sui prezzi preferita dalla Fed, possa salire bruscamente nei prossimi trimestri.
Sulla base di un’analisi di 30 fattori in cinque categorie che consideriamo le fonti primarie della pressione inflazionistica, riteniamo che vi sia una possibilità su quattro che l’inflazione superi l’obiettivo della Fed del 2% fissato per quest’anno, la più alta probabilità dal 2014.
Il dato significativo è che la crescente internazionalizzazione degli Stati Uniti dal 1994 ha significato che l’inflazione statunitense non è più solo un fenomeno nazionale, ma che è sempre più influenzata da fattori globali. Quindi la disoccupazione statunitense in discesa è meno collegata alle pressioni sui prezzi interne.
L’economia statunitense si è fatta largo attraverso le ultime pressioni deflazionistiche. Dopo quasi un decennio di inflazione contenuta ma positiva, il divario tra il punto in cui i prezzi dovrebbero essere e dove sono si è ampiamente ridotto. Inoltre, anche l’output gap mondiale è pressoché svanito, all’interno di una solida crescita globale, che probabilmente eserciterà un effetto maggiore sull’inflazione statunitense.
Tra i primi segnali vi saranno con buone probabilità gli aumenti relativamente bruschi dei salari statunitensi e il netto rimbalzo dei prezzi delle materie prime, con il petrolio in testa. Gli investitori e i policymaker sono ormai così abituati ad una bassa inflazione che questa inversione potrebbe rivelarsi una spiacevole sorpresa. L’inflazione non è morta. Ha solo dormito per un pò.