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Italia, banco di prova per l’eurozona
Dal 2012 in poi sia l’Europa che l’Italia hanno compiuto passi avanti. Spagna, Irlanda e Portogallo sono riusciti a tirarsi di nuovo in piedi e a ritornare alla crescita e alla stabilità.
L’Italia, pur gravata da un debito pubblico pari al 130% del PIL, è tuttavia riuscita a piazzare 5,6 miliardi di euro in titoli di Stato anche nel mezzo della crisi della settimana scorsa. Secondo la BCE, alla fine del 3° trimestre 2017 oltre il 12% dei prestiti bancari del paese erano in sofferenza ma, dopo alcune cessioni record di asset, il dato è in miglioramento rispetto al 16,6% registrato un anno prima.
Tuttavia, buona parte dei miglioramenti e l’assenza di palesi rischi sistemici sono da ricondurre all’attuale contesto di crescita interna ed estera, come ha riconosciuto la BCE nella sua Financial Stability Review, pubblicata con cadenza biennale. La riforma strutturale dell’eurozona si è rivelata difficile persino negli ultimi sei anni di discreto bel tempo. Ma se in cielo dovessero ritornare nuvoloni economici pieni di pioggia, sarà molto più difficile sistemare il tetto o ignorarne i buchi.
Sono due le conclusioni che gli investitori possono trarre da questa vicenda. La prima è che il rischio sistemico intrinseco nell’inadeguatezza strutturale dell’eurozona può rimanere sopito a lungo, ma non deve essere ignorato. La seconda è che Draghi e la BCE avranno ottimi motivi per eccedere con la cautela, quando inizieranno a programmare un restringimento della politica monetaria.
Secondo il team di Neuberger Berman, sotto molti aspetti, l’Italia rappresenta il massimo punto di stress per l’eurozona e per il suo futuro politico ed economico. Come questa difficile situazione di crescita lenta, divisione politica e forte indebitamento verrà risolta rappresenterà nel lungo termine la discriminante del successo dell’eurozona che, non dimentichiamolo, è l’economia più grande del mondo.
La verità è che le reazioni dei mercati ignorano le difficoltà dell’Italia che costituiscono un microcosmo delle difficoltà dell’eurozona nel suo complesso. L’Italia è un paese ricco con un settore delle esportazioni in forte espansione, ma la sua ricchezza e le realtà che creano tale ricchezza sono concentrate al Nord, il cui senso di solidarietà nei confronti del Meridione non è dei più caldi. Al Sud, una popolazione sempre più vecchia, povera e sottoccupata ha dovuto affrontare una gravosa crisi immigratoria, potendo contare solo su una debole struttura pubblica come unica risorsa.
L’adesione all’euro ha tolto -secondo il team di Neuberger Berman- ai paesi colpiti da un rallentamento della crescita (come l’Italia) il tradizionale pulsante del “reset” economico: la svalutazione della moneta. Ma i ricchi paesi esportatori dell’eurozona settentrionale ostacolano la solidarietà fiscale necessaria per aiutare l’Italia a ritornare alla crescita in assenza dell’opzione della svalutazione. E le istituzioni dell’eurozona sono troppo deboli per forzare una soluzione del problema. Il progetto di unione bancaria è stato posposto sine die e le ridotte dimensioni dell’European Investment Stabilization Function (30 miliardi di euro) messe a nudo la settimana scorsa indicano chiaramente che l’eurozona ha ancora molta strada da fare per realizzare una qualche forma di condivisione del rischio fiscale.
L’episodio dei Btp , ad ogni modo, ha riportato alla ribalta il fatto che l’eurozona è affetta da impedimenti strutturali in grado di costituire rischi sistemici. Rischi che politici e investitori hanno cercato di ignorare da quando sei anni fa Mario Draghi pronunciò il suo impegno a fare “tutto quanto sarà necessario”.