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Mercati emergenti, una difficile allocazione
Avevamo visto che l'inclusione delle azioni A cinesi nell'indice Msci Emerging Markets potrebbe procurare, al di là del fatto che si tratti di un fenomeno positivo sul lungo termine, alcuni problemi non da poco per chi investe in quella vasta asset class nota come azionario emergente. Essenzialmente il rischio è andare a concentrarsi in maniera eccessiva su una singola economia, scommettendo su quello che potrebbe essere un fenomenale rerating azionario, che dovrebbe svilupparsi di pari passo con l'aumento del grado di ricchezza dell'economia cinese.
Il problema dell'eccesso dell'esposizione alla Repubblica Popolare, però, è che potrebbe portare anche a un fenomeno speculare: infatti un simile dominio da parte della Cina su un benchmark su cui si basano i gestori di diversi trilioni di euro rischia di fare nascere forti difficoltà nella valutazione di molte strategie. Il rischio infatti è che si vada a creare una situazione simile a quella che vi è stata per anni in Europa nei confronti dei listini del sud del continente: banche e aziende in generale legate al comparto domestico sono state pesantemente messe in underweight da quasi tutti i money manager rispetto alla componente più internazionale delle economie meridionali. Il pericolo è che, a fronte di un periodo prolungato di crisi dell'equity della Repubblica Popolare, esso finisca per essere pesantemente sottopesato dai gestori di azioni emergenti, dando così l'impressione di una capacità di generare un alfa in realtà fasullo.
Non solo: in caso di cattive performance cinesi, ad allontanarsi significativamente dai pesi del benchmark ci sarebbe la fondata possibilità di andare incontro ad altri problemi in termini di concentrazione geografica, settoriale e aziendale. Consideriamo un esempio: se il flottante delle azioni A venisse riconosciuto in tutto il suo peso, come abbiamo visto la quota di azionario cinese sul totale dell’Msci Em supererebbe il 40%. Una soluzione potrebbe essere limitarla al 30%, in tale situazione, però, gli aggiustamenti sul resto del portafoglio sarebbero discutibili. Diminuirebbe infatti la concentrazione in tecnologia e aumenterebbe quella in materiali di base e industriali, soprattutto grazie a una maggiore esposizione verso la Corea del Sud. Quest'ultimo paese, infatti, è quello che vedrebbe in termini assoluti il più rilevante incremento di capitali allocati, davanti a Taiwan.
Nello stesso ambito tecnologico bisognerebbe notevolmente sottopesare Alibaba e Tencent, aumentando di converso l'investimento in Samsung Electronics e Taiwan Semiconductor: da soli questi due gruppi andrebbero nel nostro esempio a occupare quasi l'8% del portafoglio. A meno che ovviamente non si decida di andare underweight in tutto il Far east per concentrarsi sul resto del mondo emergente.
Che fare dunque? Innanzitutto da una parte, data l'importanza della Cina a livello dimensionale, è ora che venga promossa nel paese una base seria di investitori in azionario, in grado di portare da una parte a una migliore governance e dall'altra a multipli più sensati e minore volatilità sul mercato delle A. Dall'altra probabilmente l'etichetta generica di emerging market non ha più molto senso: in futuro vedremo come potere raggruppare le varie realtà in una maniera che sia più rispondente alla realtà attuale e soprattutto a quella futura.