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Ciò che i mercati vogliono dai politici
Dopo il primo turno delle elezioni presidenziali di domenica scorsa il candidato di estrema destra Jair Bolsonaro sembra il grande favorito per diventare il nuovo presidente del Brasile nel ballottaggio di domenica 28 ottobre. I mercati hanno reagito spingendo in forte rialzo gli asset brasiliani, proseguendo una tendenza che era già in corso man mano che il controverso ex militare appariva sempre più forte nei sondaggi. Il mercato brasiliano, sempre ricco di volatilità e decisamente fragile nelle fasi di avversione al rischio, rischia quest'anno di risultare uno dei migliori nello scassato insieme degli emergenti.
Il suddetto Bolsonaro è stato più volte definito il Trump dei tropici e in effetti finora gli investitori hanno accordato al suo programma lo stesso gradimento riservato al presidente americano. Contemporaneamente, invece, le Filippine, rette da un uomo come Rodrigo Duterte, che per molti aspetti ricorda il candidato brasiliano, stanno vivendo un'annata pessima: fra svalutazione del peso infatti e cali borsistici (a oggi superiori al 18% dall'inizio dell'anno in valuta locale) Manila risulta la peggiore piazza asiatica. Un discorso simile vale ovviamente per la Turchia, mentre le difficoltà attuali dell'Italia sono note.
Perché dunque alcuni governi definiti populisti-nazionalisti sembrano essere puniti brutalmente dai mercati mentre altri sono premiati? Ovviamente i vari uomini politici citati, per quanto possano avere alcune somiglianze, operano con filosofie di governo e su sistemi economici molto diversi, il che in parte spiega la diversità di risultati. D’altro canto, però, il fenomeno è condizionato dal requisito di base per generare un boom degli asset rischiosi sul proprio mercato: ossia essere dotati di un programma pro-crescita sufficientemente credibile.
A chi sposta capitali poco importa, in un senso o in un altro, se il governo in carica di una nazione rende legale il matrimonio gay o viceversa applica con liberalità la pena di morte per via extra-giudiziale nei confronti dei tossici. Né essere nel primo campo ha impedito alla Spagna di Zapatero di andare incontro a una crisi disastrosa con contemporanea fuga di capitali, mentre appartenere alla seconda parrocchia sta procurando chissà quali benefici alle Filippine.
Con programma pro-crescita non si intende necessariamente l'adesione all'ortodossia monetarista tipica del mondo tedesco e neppure al liberismo. Trump, ad esempio, sta portando avanti un programma che è, sia turbo-liberista, sia keynesiano, mentre Bolsonaro sembra intenzionato a liberalizzare parecchio l'economia brasiliana. Al tempo stesso, però, quando l'intervento statale serve allo scopo viene assolutamente gradito dagli operatori finanziari. Tanto per restare nell'ambito di Usa e Brasile, un presidente statunitense all'estremo opposto dello spettro ideologico attuale come Barack Obama, che ha presieduto basando la sua politica su un raddoppio del debito pubblico in otto anni, è stato altrettanto benvoluto dai mercati, mentre nell'era d'oro delle commodity e degli emergenti (2003-2011) il partito di Lula, schierato a sinistra, era l'eroe di chi si esponeva su quell’asset class.
Tutto va bene, spesa pubblica elevata piuttosto che tagli e privatizzazioni, protezionismo piuttosto che apertura al libero mercato, purché si riesca ad alzare la crescita del Pil. Nel caso della Turchia, ad esempio, il modello basato su grandi opere pubbliche è arrivato alla fine del proprio ciclo propulsivo e della propria vita utile, mentre nelle Filippine, un paese che soffre di una carenza infrastrutturale spaventosa, un simile approccio, nonostante le promesse, non è mai partito.
Questo ragionamento ci porta in Italia: l'attuale compagine di governo non sta operando alcuno strappo nei conti pubblici rispetto ai governi immediatamente precedenti. Il problema è che questi ultimi avevano la copertura del Qe della Bce, che garantiva rendimenti bassi al nostro debito pubblico. Di conseguenza ciò permetteva di avere un minimo di margine di stimolo in più: entrambi gli elementi poi si riflettevano positivamente sulla qualità dei bilanci delle banche che potevano tornare a prestare. In pratica un circolo virtuoso cui si è invece sostituito un circolo vizioso speculare.
In definitiva per avere, almeno temporaneamente, la fiducia dei mercati vi sono solo tre vie: o offrire un piano di riforme teso a liberalizzare l'economia in direzione di una maggiore competitività e vivacità imprenditoriale o attuare un programma di robusta spesa pubblica e stimolo statale, assicurandosi però di avere messo in sicurezza l'afflusso di capitali per finanziare tutto ciò, oppure adottare un mix di queste due ricette.
Uomini i governo come Donald Trump o Shinzo Abe sembrano averlo capito, altri fra cui la nostra classe politica decisamente di meno. Almeno stando ai numeri dello spread tra Btp e Bund.