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2018, brutto anno, ma non terribile
Manca poco alla chiusura del 2018, un anno che si è rivelato finora pessimo per i mercati finanziari e decisamente peculiare. Per una valutazione definitiva bisognerà aspettare il 31 dicembre, in quanto le giravolte e le sorprese finora sono state talmente tante che l'ultimo mese potrebbe fare sì che il 2018 passi alla storia come l'annata peggiore dal 2008, come al contrario l'avvio di una nuova epoca di ripresa. Ciò che però si può affermare fin da ora è che gli ultimi mesi sono stati un periodo di elevata volatilità e di fortissima correlazione positiva.
Cominciamo dal primo punto. In realtà l'affermazione appena fatta va tarata con un caveat, ossia che all'aggettivo elevata e al sostantivo volatilità vada aggiunto un altro aggettivo, ossia relativa. Infatti quest’anno abbiamo visto una pletora di fenomeni piuttosto strani e inusuali, specialmente se paragonati ai costanti rialzi del 2017. Tanto per scendere nel concreto, se analizziamo i movimenti giornalieri di varie asset class, sia azionarie, sia obbligazionarie, scopriamo un dato interessante. In particolare, se le suddette oscillazioni vengono messe a confronto con la volatilità implicita a tre mesi per il mercato di riferimento, ricavata dal corrispondente mercato delle opzioni, è in generale una buona proxy del rischio percepito dagli investitori. Ebbene si scopre che vi sono stati 25 casi in cui ci sono stati movimenti superiori o pari a tre volte tale volatilità.
A questo punto dobbiamo inquadrare un minimo tali cifre: innanzitutto molti modelli di allocazione di portafoglio e di gestione del rischio, elaborati decenni fa, hanno come presupposto che molti asset disponibili sui mercati si distribuiscano come una gaussiana incentrata su una media pari a zero e una standard deviation da stimare, oltre al fatto di essere tutti fra loro statisticamente indipendenti.
Tali assunti in generale sono ragionevolmente veri quando le condizioni di mercato sono positive, un po' meno (per usare un eufemismo) quando le cose vanno male. Gli eventi negativi diventano molto più estremi e molto più numerosi rispetto a quanto tale modello semplificato farebbe prevedere. Non solo: viene meno anche l'indipendenza statistica, in quanto spesso cali pronunciati spingono gli investitori al panico e a liquidazioni forzate, che hanno l'effetto di diminuire la volatilità e aumentare la magnitudine del tutto, fenomeno alla base del cosiddetto volatility clustering.
Detto ciò dobbiamo davvero preoccuparci per quanto successo nel 2018 ? Sì e no. Da una parte, infatti, i 25 episodi estremi, per ciascuno dei quali, secondo il modello classico, non dovrebbe esserci più dello 0,3% di probabilità, rappresentano il valore più elevato dal 2007, annata nella quale se ne verificarono 27. Come si può vedere da tale punto di vista il 2018 è stato un anno paragonabile al 2008: anche in tale difficile periodo si verificarono 25 episodi per così dire estremi. Gli ultimi mesi, dunque, hanno portato a fenomeni paragonabili alla crisi finanziaria? Ovviamente la risposta è no: non dimentichiamo infatti l'aggettivo relativa attaccato a volatilità. Quest'ultima infatti si basa comunque sulle stime, ricavate dai prezzi delle opzioni, che gli investitori attribuiscono alla sua evoluzione nei prossimi mesi.
Con questo intendiamo dire che nel 2008 si sono verificati meno eventi estremi perché era molto diversa la soglia assoluta dell'estremo in un'economia che si stava già disfacendo. Quest'anno venivamo invece da uno dei periodi più tranquilli e positivi della storia dei mercati. La prosisma volta tenteremo di capire che cosa questo aggiustamento significhi.