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Wall Street ha paura anche della sua ombra
La giornata di martedì 4 dicembre ha visto una caduta disastrosa da parte dei mercati azionari americani. L’S&P 500 ha infatti registrato un calo superiore al 3,2%, mentre il Nasdaq ha lasciato sul terreno il 3,8%. In pratica in un solo giorno gli investitori hanno perso circa la metà della possente ripresa dai minimi toccati prima del giorno del Ringraziamento. L'iniezione di fiducia generata dalle parole più caute della Fed e dalle notizie di disgelo arrivate da Buenos Aires fra Xi Jinping e Donald Trump sono state dunque piuttosto in fretta dimenticate. A dare il la alle vendite è stato un peculiare fenomeno sul mercato dei titoli di stato, invariabilmente associato a nefasti presagi: l'inversione della curva dei rendimenti.
Nello specifico è stato il bond governativo a cinque anni a scendere sotto il livello di quello a tre anni, registrando un rendimento del 2,79% a fronte del 2,81% per la scadenza più breve. A un certo punto nella giornata di martedì si è rischiato di vedere verificarsi lo stesso fenomeno anche per quanto riguarda il differenziale fra il due anni e il decennale: fra i due infatti ormai non corre che una decina di punti base.
Perché questo panico? In generale il fenomeno è associato all'arrivo imminente di una recessione, specialmente quando si entra in territorio negativo per quanto riguarda lo spread fra due e 10 anni e fra tre mesi e 10 anni.
In generale non è che questo fatto abbia un rapporto di causalità rilevante con il deteriorarsi dell'economia, ma rappresenta una spia, un sintomo di una situazione difficile, in cui il denaro è diventato troppo caro rispetto a fondamentali in deterioramento e in cui gli investitori scommettono su futuri tagli del costo del denaro.
Quanto sono precisi i segnali forniti dall'inversione? In generale abbastanza, nel senso che negli ultimi 50 anni non si è mai verificata una recessione in Usa (a differenza ad esempio di Giappone e Germania) senza che prima si verificasse l'inversione 2-10 anni e 3 mesi-10 anni. È successo un paio di volte (nella seconda metà degli anni ‘90 e nel 2005-2006) che il fenomeno sia accaduto senza che si verificasse immediatamente una contrazione economica.
In tali casi, però, i titoli del Tesoro sono ritornati alla loro struttura normale rapidamente per poi di nuovo andare a invertirsi dopo non tanto tempo: in pratica in quelle due circostanze vi è stato un falso allarme in punti comunque già decisamente avanzati del ciclo. In verità lo stesso potrebbe accadere anche adesso, senza contare che magari non vedremo neppure le due inversioni più importanti: certo è che un simile rapido cambiamento di umore e di propensione al rischio da parte di Wall Street è piuttosto impressionante. Ciò cui si sta assistendo ricorda molto la seconda parte del 2007 e quella del 2000, entrambi anni che poi hanno portato a disastrosi bear market da parte degli asset rischiosi.
Altrettanto certo è un elemento: è probabile che l'anno prossimo andremo incontro a una cosiddetta recessione della crescita, in cui Pil e risultati aziendali aumentano a ritmi marcatamente ridotti rispetto al periodo immediatamente precedente; per il momento, però, segnali di una vera e propria crisi sono (quasi) assenti. Il consensus vede attualmente gli utili dell'S&P 500 in rialzo del 6-8% nel 2019, un valore che conferisce all'indice un P/E forward di 14,5x circa. Si tratta di un livello tutto sommato equo, considerando il risk premium previsto.
A meno di improvvisi deterioramenti, la previsione più sensata sarebbe vedere un azionario made in Usa sostanzialmente stagnante, in un quadro di crescente volatilità, probabilmente sovraperformato nel 2019 da altre aree del mondo e forse con meno potenzialità rispetto agli high yield tornati relativamente attraenti dopo gli ultimi due mesi.
Certo, i segnali di crisi sono quasi, ma non totalmente, assenti. In effetti qualche crepa qua e là comincia a vedersi. La prossima volta vedremo qualche dettaglio in più.