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Coronavirus: CGIA, il lavoro nero non si ferma
La pandemia da coronavirus sta ulteriormente allargando, se ce ne fosse stato bisogno, una piaga tutta italiana: il lavoro nero. In Italia ci sono oltre 3 milioni di persone tra lavoratori dipendenti che fanno il secondo/terzo lavoro, cassaintegrati o pensionati che arrotondano le magre entrate o da disoccupati che - in attesa di rientrare nel mercato del lavoro - sopravvivono grazie ai proventi riconducibili a un’attività irregolare. In questi primi giorni di chiusura imposti per decreto, moltissime imprese commerciali e artigianali sono state controllate dalle autorità, soprattutto i cantieri edili e le aziende che hanno continuato a tenere aperto. Al contrario il mondo del lavoro nero è rimasto indenne da queste ispezioni.
Le ispezioni dovrebbero interessare anche gli abusivi
In questa situazione di emergenza, dalla quale è poi scaturito il ‘shutdown’ del Dpcm, nel mirino degli abusivi sono finite molte attività artigiane chiuse (o quasi) che, per questo, varrebbe la pena controllare. Lo dice Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio studi CGIA, secondo cui “tuttavia, poco o nulla si continua a fare contro l’abusivismo e il lavoro nero. È vero che in questi giorni una parte degli oltre 3 milioni di lavoratori irregolari presenti nel nostro Paese è rimasta a casa. Ma è altrettanto sicuro che molti altri hanno continuato imperterriti a lavorare abusivamente presso le abitazioni dei privati”. Tra questi, ha sottolineato, ci sono quelli che hanno approfittato della chiusura totale imposta agli acconciatori e alle estetiste e “della difficoltà da parte dei cittadini di reperire tanti artigiani che sono disponibili solo per le urgenze, ma non per gli interventi ordinari”.
I settori più colpiti dagli operai ‘invisibili’
Il problema del lavoro nero lo si avverte soprattutto nel settore dell’edilizia, con dipintori, fabbri, idraulici, elettricisti “e dei manutentori di caldaie che in questi giorni stanno subendo una concorrenza sleale molto aggressiva da parte di coloro che esercitano queste professioni senza averne titolo”. La CGIA ricorda che, secondo l’Istat, l’esercito degli operai ‘invisibili’ presenti in Italia è costituito da 3,3 milioni di persone che ogni giorno si recano nei campi, nei cantieri, nei capannoni o nelle case degli italiani per prestare la propria attività lavorativa. Pur essendo sconosciuti all’Inps, all’Inail e al fisco, gli effetti economici negativi che producono sono pesantissimi.
Tasse e burocrazia creano le basi per il lavoro nero
“Con troppe tasse e un sistema burocratico e normativo eccessivamente oppressivo – sostiene il segretario CGIA, Renato Mason - l’economia irregolare ha trovato un habitat ideale per diffondersi, soprattutto in alcune aree del Paese e ancor di più in questi giorni di contenimento della diffusione del coronavirus. Inoltre, chi opera completamente o parzialmente in nero fa concorrenza sleale, altera i più elementari principi di democrazia economica nei confronti di chi lavora alla luce del sole ed è costretto a pagare le imposte e i contributi fino all’ultimo centesimo. Anche per questo è necessario che l’esercizio abusivo delle professioni artigianali vada contrastato e perseguito”.
Condizione critica nel Sud, più virtuoso il Nord
L’Ufficio studi della CGIA ha stimato come si ripartiscono a livello regionale i 78,5 miliardi di euro di fatturato in nero all’anno prodotto dai lavoratori abusivi. A livello territoriale la situazione più critica si presenta nel Mezzogiorno. A fronte di poco più di 1,25 milioni di occupati irregolari (pari al 38% del totale nazionale), a Sud il valore aggiunto generato dall’economia sommersa è pari a 26,8 miliardi d euro, pari al 34% del dato nazionale. La realtà meno investita dal fenomeno è il Nordest: il valore aggiunto del sommerso è pari a 14,8 miliardi di euro. Campania, Calabria e Sicilia sono le realtà dove il lavoro nero è più diffuso; oasi felici Aosta, Veneto e Bolzano. Le ripercussioni negative non sono solo per l’Erario, ma anche per i settori che subiscono una concorrenza sleale: le imprese che fanno ricorso a lavoratori in nero hanno infatti più margini (senza pagare contributi previdenziali, tasse e assicurazioni) per praticare dumping sui prezzo finale del prodotto/servizio.