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Petrolio, inizia un nuovo trend rialzista?
Il default di molte società Usa specializzate nel fracking e le gravi difficoltà in cui versano i conti pubblici di alcuni Stati facenti parte del cartello, sembrano aver convinto l’Arabia Saudita a modificare la propria posizione
Mercoledì scorso, per la prima volta dal 2008, l’Opec è arrivata a un accordo per ridurre la produzione di petrolio dopo che l’Arabia Saudita, il maggiore esportatore di greggio al mondo, ha ammorbidito la sua posizione nei confronti del suo grande rivale (l’Iran) e ha accettato condizioni necessarie a risollevare le sue finanze pubbliche e quelle di molti altri Paesi facenti parte del cartello.
Dopo un biennio in cui i Paesi dell’Opec hanno agito in piena libertà e senza alcuna limitazione riguardo le quantità estratte, viene avviato un cambio di strategia basato sull’adozione di limiti alla produzione. La decisione arriva dopo che molti membri dell’Opec hanno manifestato serie difficoltà di gestione dei propri conti pubblici a causa del tracollo delle entrate fiscali legate all’oro nero.
I future sul petrolio hanno festeggiato l’accordo con rialzi delle quotazioni superiori al 5%. Ieri il Brent ha superato di poco i 49 usd al barile e il West Texas i 47 usd. L’Arabia Saudita vuole spingere all’insù i prezzi dopo aver inondato per due anni il mercato con una produzione crescente. L’obiettivo del paese era escludere dal mercato i produttori meno efficienti (l’industria del fracking negli Usa). Dopo aver gettato sull’orlo del baratro (e anche oltre) numerose società nordamericane specializzate nel fracking, adesso è arrivato il momento di raccogliere le reti, ridurre la produzione e vedere dove può arrivare il prezzo del barile.
Vari membri del cartello sono in condizioni agonizzanti a causa del tracollo delle entrate fiscali (spesso le uniche entrate consistente per il bilancio dello Stato). Quest’ultimo è il caso del Venezuela, considerato da numerosi analisti del settore a due passi dal default.
Il ministro iraniano del petrolio ha affermato che l’intenzione del cartello è ridurre la produzione di 700.000 barili al giorno. Il problema diventa ora capire come sarà messo in pratica l’accordo. Il ministro venezuelano del petrolio, Del Pino, ha accolto con entusiasmo la decisione ma ha anche sottolineato quanto sia complicato rendere effettivo un accordo di tale portata. E’ molto probabile, ha affermato Del Pino, che i dettagli sui tagli apportati alla produzione –e sul periodo in cui dovrà essere rispettata la limitazione- di ciascun membro verranno definiti a novembre.
Se Stati Uniti, Canada e Brasile dovessero recuperare a breve termine i livelli produttivi del 2015, l’accordo raggiunto dall’Opec potrebbe rivelarsi insufficiente. Se questo dovesse accadere, il rally del petrolio avrà vita breve. Le piattaforme petrolifere statunitensi sono riuscite a stabilizzarsi con il barile a quota 45-50 dollari. Se si supererà questa quota, la produzione potrebbe andare incontro a una sensibile accelerazione.
Un altro fattore chiave per capire quale potrebbe essere l’evoluzione del mercato nei prossimi anni, è la reazione del resto dei produttori. L’industria del fracking è stata la vittima predestinata della strategia saudita e molte imprese del comparto sono state costrette a dichiarare bancarotta (basti pensare che il tasso di defaul che ha interessato gli High Yield Bond Usa è legato quasi del tutto al fallimento di società energetiche operanti nel fracking).
Il comparto ha dovuto ridisegnare la mappa delle aziende e cercare un equilibrio basato su una profonda austerità (riduzione al lumicino dei costi e aumento dell’efficienza). Se il prezzo del petrolio comincerà a salire in fretta, è probabile che assisteremo ad una risurrezione di alcune aziende del fracking.