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Controllare il rischio con la risk parity
È il problema numero uno per qualsiasi gestore che voglia controllare la volatilità dei rendimenti e ottenere al contempo extra-rendimenti dal mercato: tra le diverse strategie adottate per riuscire a ottenere questo scopo ha ottenuto un particolare favore da parte degli investitori la cosiddetta risk parity.
Ma di che cosa si tratta? La costruzione di un portafoglio multi-asset viene portata avanti con un semplice elemento di base, ossia fare in modo che ogni asset class in cui si va a investire fornisca un contributo più o meno equivalente al rischio. Ciò vuole dire che, rispetto al classico portafoglio 60% in azioni e 40% in bond, in un prodotto risk parity la quota azionaria sarà decisamente più ridotta. La chiave è diversificare il meno possibile in asset class correlate fra loro, per l'appunto in proporzioni tali da rendere pari il loro contributo al rischio, qualunque sia il livello desiderato. Alla fine ovviamente si ottiene un portafoglio ottimale, che però presenta prospettive di rendimento minori rispetto a prodotti con una maggiore concentrazione in azionario.
Infatti, nel caso di un approccio risk parity puro, da manuale di finanza, si rischia di avere un portafoglio le cui prospettive in termini di capital gain sono molto limitate rispetto a uno meno diversificato e più orientato ad attivi volatili. In generale i gestori che operano in questo alveo risolvono il problema utilizzando un certo ammontare di leva applicato alla quota più sicura del proprio portafoglio, specificatamente i titoli di stato degli emittenti più solidi.
La domanda che sorge spontanea, però, è a che pro viene fatto tutto ciò, visto che il rischio cacciato fuori dalla porta, tramite una diminuzione della quota azionaria, ritorna dalla finestra sotto forma di leva nel reddito fisso? In realtà in questa maniera si riesce a mantenere comunque un'adeguata diversificazione, specialmente nelle fasi dei si salvi chi può sui mercati.
Per tale ragione questo tipo di prodotti conquistò la ribalta durante i tetri giorni del 2008-2009, sostanzialmente perché erano arrivati decisamente scarichi di equity, rispetto almeno ad altri portafogli flessibili, bilanciati, multi-asset e altri. Il discorso però è un po' diverso in questo 2016 di crisi, o quanto meno di paura di crisi, strisciante. Negli ultimi anni la quota azionaria è indubbiamente aumentata in molti prodotti per due ragioni abbastanza elementari. Da una parte i titoli di stato hanno raggiunto quotazioni assurde, con però nel mezzo eventi di coda statistica assolutamente incredibili. Dall'altra parte l'azionario è salito, in particolare in Usa, dove il Vix nel 2013 raggiunse i minimi storici, con una volatilità calante e uno scarto costante fra realizzata e implicita, con quest'ultima sistematicamente superiore.
Nei fondi risk parity ovviamente la stima dei parametri di rischio rappresenta un aspetto fondamentale e in questo ambito molti analizzano i dati su una serie storica piuttosto limitata, magari di tre anni, mentre c'è chi scende indietro nel tempo fino a 15 anni. Su questo orizzonte temporale, ad esempio, si scopre che la volatilità in questo 2016, nonostante le fasi di panico, è ancora sotto la media storica e pertanto non è assolutamente improbabile che in futuro si possa avere una mean reversion, che consiglia di rimanere cauti con l'esposizione azionaria.
In definitiva, se dovessimo trarre una conclusione, si potrebbe dire che un risk parity di ampio respiro obbliga a guardare alla storia dei mercati sul lungo periodo, una strategia che permette in parte di considerare la frenetica ricerca del growth degli ultimi anni per certi versi un'aberrazione storica, riservando una buona parte delle scelte di investimento al value. Il che rappresenta un'ottima guida anche per i cambiamenti tattici nei periodi di maggiore crisi.