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Il modello utility di corporate America
Le caratteristiche attuali del mercato azionario americano sono per certi versi prive di precedenti nella storia dell'equity statunitense. L'andamento dell'S&P 500, infatti, evidenzia alcune trasformazioni strutturali della propria base di investitori e delle attitudini di questi ultimi di non facilissima lettura, almeno in confronto a quanto accaduto in passato.
Il mercato azionario Usa è caro e questa non è una novità, ma lo è in maniera scandalosa secondo alcuni indicatori e molto meno per altri. Prendiamo innanzitutto il più conosciuto: il P/E medio dell'indice S&P 500. A fine febbraio il suo valore trailing era piuttosto elevato (superiore a 24), così pure quello forward, sopra la soglia di 17,3x. Si tratta però di livelli non così terrificanti, specialmente in un regime di tassi bassi.
Il discorso cambia se prendiamo il P/E di Shiller: questo indicatore è un trailing che si basa sugli utili degli ultimi 10 anni aggiustati per l'inflazione: attualmente è sopra 29x, cioè pari a quanto registrato poco prima del collasso del 1929. Da fine '800 a oggi, inoltre, simili numeri sono stati superati solamente ai picchi della follia delle dot.com a fine anni '90: nel dicembre del 1999 lo Shiller P/E toccò infatti il suo massimo storico sopra 44. Come si può intuire un totale outlier statistico anche rispetto ai valori inflazionati di oggi.
Se analizziamo poi il P/sales, ossia il rapporto fra corsi azionari e fatturati, si scopre che, intorno a 2,09, questo valore è praticamente ai massimi di sempre. In termini di P/book (rapporto prezzo delle azioni su patrimonio netto delle aziende) siamo intorno a 3: un livello elevato, ma non diverso da quello di un decennio fa e largamente sotto i picchi di quasi un ventennio fa, quando era oltre 5. L'attuale dividend yield quota intorno a 2,1%, che è non male per gli standard della finanza contemporanea (a partire dagli anni '80 in poi).
Che cosa si può dire dunque delle maggiori aziende americane? Essenzialmente che esse hanno visto negli ultimi anni un aumento molto forte degli utili generato in parte da elevati margini, il che spiega il P/E forward alto, ma non infernale che si è visto in questi anni, accompagnato però da un P/sales elevato. Le aziende americane, inoltre, hanno aumentato i propri Eps con un forte processo di riacquisto di azioni proprie, spesso a debito, il che si è fatto sentire sul livello generale di leva. Grazie a quest'ultimo aspetto nel corso degli anni si è visto comunque un certo rafforzamento patrimoniale.
Il fenomeno è spiegabile in questi termini: è vero che a fronte di fatturati relativamente stagnanti le società dell'S&P 500 sono riuscite a ricavare maggiori margini e ancora più elevati utili per azione, spendendo soldi per riacquistare titoli propri e aumentando anche i dividendi. Il calo generale degli investimenti, documentato da moltissimi indicatori negli ultimi anni, ha però consentito, nonostante la generosità verso gli azionisti, di rafforzare il profilo patrimoniale societario. Ciò ha impedito al rapporto P/book di esplodere oltre certi livelli.
Se dovessimo sintetizzare, potremmo dire che i grandi gruppi Usa hanno grattato il fondo del barile della proprio competitività e capacità manageriale. Il fenomeno appare legato al ben documentato calo generale della volatilità. Essa è passata, in termini di standard deviation annualizzata, da una media superiore al 15% nell'ultimo decennio a una intorno a 10,2% nell'ultimo quinquennio, con un piccolo aumento (10,4%) se prendiamo in considerazione solo gli ultimi tre anni.
In quest'ultimo caso ha contribuito all'aumento la correzione/quasi-bear market dello scorso anno. Da allora la volatilità realizzata ha ripreso a crollare, in particolare dallo scorso autunno. La prossima volta vedremo come i due fenomeni siano paradossalmente legati e contribuiscano a creare un nuovo paradigma per le azioni Usa che potremmo definire come quello di nuove utility.