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Il ritorno della mediocrità mondiale
Venerdì 9 giugno è stato caratterizzato da un calo dell'1,8% del Nasdaq Composite, generato da un bagno di sangue di alcuni dei maggiori titoli It del mondo. Il tutto in un panorama abbastanza curioso, fatto di dollaro che si è indebolito ed è attualmente in fase di stagnazione, un petrolio ormai saldamente sotto 50 dollari al barile, un obbligazionario che ha vissuto nelle ultime settimane un ritorno di fiamma e mercati azionari asiatici che cominciano a vedere prese di profitto.
È vero che siamo alle porte della stagione estiva, che spesso porta risultati imprevedibili e di breve termine, in una direzione o in un'altra, ma non si può non notare che sta per l'ennesima volta sparendo la speranza di vedere un boom economico. Come abbiamo più volte sottolineato, per il momento l'Europa è quella messa relativamente meglio, ma le cifre degli Usa e della Cina fanno presagire uno scenario caratterizzato dalla mediocrità economica del decennio fino al 2016, anno che rappresentò un periodo di rottura rispetto al tran-tran post crisi finanziaria, con un inizio caratterizzato dal terrore di una nuova recessione con sfacelo dei mercati e finito invece con aspettative di boom.
Con ogni probabilità entrambi i paradigmi sono nell'immediato abbastanza insensati: l'esito più probabile è che da qui a fine anno si torni a un'Europa che aumenta il proprio Pil intorno all'1,5%, con gli Usa stabilizzati su qualcosa più del 2% e la Cina che andrà progressivamente a scendere fin sotto il 6% di aumento annuo. Le dinamiche in corso infatti non sembrano giustificare un boom, visto il livello ancora minimo dei capex aziendali e degli investimenti pubblici.
Bisognerà dunque adattarsi a tornare a un ambiente molto simile a quello che abbiamo conosciuto nel recente passato, con però molta crescita già incorporata nelle quotazioni di tantissimi asset. Non necessariamente ciò porterà a rovinose correzioni (movimenti come quello visto sul Nasdaq sono in verità periodicamente abbastanza comuni), bensì a un affievolimento della salita dei corsi delle attività rischiose.
In questo ambito non sembra la più stolta delle decisioni aumentare la propria esposizione a investimenti dal buon carry. Prendiamo il caso dei bond dei paesi emergenti in valuta locale, un’asset class con un rating medio intorno a BB+. Nel periodo che va da fine giugno 2007 a fine marzo 2017 cumulativamente hanno messo a segno un rendimento in dollari del 97%, a fronte di +90% dell'S&P 500 e +50% del decennale americano. Nello stesso periodo lo spread fra questi bond e i governativi americani equivalenti si è quasi raddoppiato, passando da 162 punti base a 310. È vero che questo aumento del differenziale è stato comunque attutito da un crollo dei rendimenti delle obbligazioni e dei tassi di interesse in generale a livello mondiale, ma gran parte di tale movimento è stato possibile da una struttura di Ytd che poggia su solide e ricche cedole.
Se poi ci spostiamo sull'equity scopriamo che c’è in corso a livello globale (ex Europa a dir la verità) un boom dei dividendi, che hanno superato i 218 miliardi di dollari nel primo trimestre del 2017, la cifra più alta di sempre e in aumento del 5,4% su base annua, il maggiore incremento da un anno e mezzo a questa parte.
Non è che i temi growth da parte dei colossi dell'It globale, che tra le altre cose dovrebbero generare un rerating complessivo dell'azionario cinese, non siano più validi. Diciamo che accompagnare tale asset allocation con qualche flusso di cassa qua e là potrebbe aiutare a navigare meglio un'economia globale che probabilmente in boom non ci tornerà mai più.