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E' un problema il debito emergente?
A partire dal 2008, le banche centrali dei paesi sviluppati hanno tagliato i tassi portandoli a zero, se non sotto zero, e hanno avviato programmi di acquisti di asset su larga scala. Tali politiche hanno fatto scendere i tassi di interesse in tutto il mondo, e sono state accompagnate da una forte espansione del credito nei mercati emergenti. Una quota importante dell'indebitamento si è concentrata nel settore corporate, inducendo organismi come il Fondo Monetario Internazionale (IMF) e la Banca dei regolamenti internazionali (BIS) a lanciare l'allarme. Tenuto conto anche del fatto che negli Stati Uniti la Fed ha iniziato il processo di rialzo dei tassi, alcuni analisti iniziano ad essere preoccupati di una eventuale crisi del debito negli emerging markets.
Effettivamente, analizzando i principali dati sul credito, è difficile non allarmarsi. A partire dal 2008, il debito in essere in 11 delle maggiori economie emergenti (Brasile, Cina, India, Indonesia, Messico, Polonia, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Corea del Sud, Turchia, che complessivamente rappresentano il 41% del Pil globale), è aumentato di oltre il 60% sul Pil, attestandosi a uno sconcertante 176%. (Fonte: Thomson Reuters Datastream/ Fathom Consulting).
Inoltre, circa i due terzi di questo incremento si sono concentrati nel settore corporate non-finanziario. Nello stesso periodo il costo annuo di servizio del debito, in rapporto ai ricavi, per le aziende private non finanziarie è aumentato del 4%.
Tuttavia a ben guardare l'aumento complessivo dell'indebitamento è imputabile prevalentemente all'esplosione del credito in Cina. Se si esclude il gigante asiatico i numeri infatti risultano molto meno preoccupanti: l'incremento del debito totale in percentuale sul Pil dal 2008 è stato solamente del 18%. Inoltre nel 2016 il costo annuo del servizio del debito per le aziende non finanziarie è diminuito, ed è solamente leggermente superiore al recente passato.
Un'altra fonte di preoccupazione è rappresentata dal rialzo dei tassi Usa. Va detto però che finora non c'è stato nessun impatto negativo importante sui mercati o sui flussi di capitali degli Em, e questo grazie al fatto che il processo di normalizzazione della politica monetaria sta seguendo un percorso estremamente lento e graduale.
Il 2014 e il 2015 sono stati due anni caratterizzati da forza del dollaro da un lato e debolezza dei prezzi delle commodity dall'altro - una combinazione tossica - che si è tradotta in cali pesanti negli asset di molte economie emergenti. L'indice Msci delle valute emergenti è sceso dell'11%, mentre il corrispondente indice azionario ha perso il 21%. Contro una rivalutazione del 20% del dollaro Usa, l'indebitamento estero delle banche emergenti è sceso nel biennio del 12%, ovvero 600 miliardi di dollari, e ha continuato a scendere anche nel 2016, attestandosi poco sopra i 2.300 miliardi di dollari. Per certi versi quindi il processo di aggiustamento del debito degli em è già in corso.
Il 2017 segna il ventesimo anniversario dalla crisi finanziaria asiatica. All'epoca, le tigri asiatiche in forte crescita avevano agganciato le loro valute al dollaro. In un contesto caratterizzato da robusti afflussi di capitali, i tassi effettivi di cambio salirono, inflazionando i deficit delle partite correnti. Quando si prosciugarono i flussi di capitali a breve termine le conseguenze furono pesanti: crollo della crescita economica e svalutazione delle divise emergenti.
Da allora, molte economie emergenti hanno introdotto tassi di cambio flessibili, facilitando così gli aggiustamenti a shock esogeni e consentendo l'accumulo di riserve valutarie. Questo, associato al crescente ricorso a indebitamento con scadenze sempre più lunghe, significa che le economie emergenti sono oggi meglio equipaggiate per affrontare necessità di rifinanziamento a breve termine. Nonostante gli avvertimenti del Fondo Monetario, i mercati emergenti sono molto più resilienti del passato, e i timori di un default sincrorizzato e generalizzato sembrano eccessivi.