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L'ingombrante peso dei cambi
Abbiamo visto che l'improvvisa debolezza del dollaro ha scompaginato, e non poco, le previsioni di inizio anno. Abbiamo anche osservato che, pur nel generale declino della volatilità storica e implicita registrato sui mercati degli scorsi anni, questo calo è risultato molto più intenso sul mercato azionario e sugli altri asset rischiosi rispetto al forex. Inoltre se il fenomeno dovesse continuare in un quadro come quello che va delineandosi, il processo di asset allocation in futuro diventerebbe ancora più complesso e rischioso.
La ragione è tutto sommato semplice: sono state realizzate ampie analisi fra i legami dei rendimenti delle attività finanziarie e l'andamento delle rispettive divise nazionali rispetto al dollaro, rapportando il tutto agli sviluppi delle economie locali. Ed è stato più volte sottolineato che l'elemento valutario sul lungo periodo rappresenta un ulteriore pilastro di investimento, destinato comunque a mostrare una certa correlazione con l'andamento relativo dei fondamentali. Un investitore può infatti scegliere, quando investe su mercati esteri, se coprire la propria posizione oppure inglobare all'interno del proprio portafoglio quello che è un vero e proprio ulteriore asset, cioè la valuta.
In generale coprire il rischio valutario è piuttosto costoso e nel caso di diverse divise emergenti lo è in maniera proibitiva: è sul lungo periodo un'attività che rosicchia un bel po' di rendimento reale, specialmente se si mantiene un approccio piuttosto conservativo, con un'elevata presenza di reddito fisso. Il problema attuale però è che, dato l'affievolimento generale dei rendimenti, le oscillazioni valutarie rischiano di diventare la componente principale di rischio/rendimento, rendendo quasi impossibile l'approccio con hedging.
Qualche esempio aiuta a chiarire la tesi esposta: nei primi sette mesi dell'anno il Dax ha avuto un rendimento nominale del 6,76% circa, cui va aggiunto un po' più dell’ 1% di quota dividendi. Se includiamo il calo del biglietto verde contro l'euro si arriva a un rendimento di circa il 20% espresso in dollari. In pratica il grosso della performance è stato dato da un effetto del forex. Se allarghiamo il discorso all’Msci Europe, addirittura vediamo che nel 2017 la performance complessiva è stata pari al 4,12% in euro e al 19,4% in dollari. Infine l’Msci Acwi, che comprende sia mercati sviluppati, sia emergenti: in dollari si è registrato +14,75%, mentre in euro ci si è fermati a +1,13%.
In pratica quella che è stata finora un'annata tutto sommato mediocre per gli indici in generale, a parte i mega trend che abbiamo esposto mesi fa e che si sono rivelati corretti (ritorno del Sud Europa e di alcuni emergenti, re-rating del Nord-Est dell'Asia, continuo dominio dell'It), la maggiore fonte di oscillazioni è stata data dal ritorno di fiamma dell'euro, non solo contro il dollaro, ma anche rispetto al resto del pianeta.
Ora se ipotizziamo che stiamo andando incontro a un mondo di relativamente bassi rendimenti, in cui vi sarà una sempre maggiore concentrazione delle fonti di alfa, appare ragionevole pensare che la situazione attuale continuerà. Il che vuole dire che nel calcolo del rendimento atteso e del Var dei propri portafogli si rischia di vedere l'elemento forex assumere un'importanza decisamente sproporzionata rispetto al passato. Infatti, se osserviamo l'andamento sempre dell’Msci Europe, scopriamo che nel periodo che va dalla fine del 2007 al termine del 2012, in euro fu perso circa 1/4 del valore, mentre in dollari ci si limitò a lasciare sul terreno circa il 17%. Se andiamo al quinquennio successivo, i valori rispettivi sono rispettivamente +27% circa e +16% circa. Risultati simili si ottengono anche per l'S&P: in pratica, rispetto quanto visto nell'ultimo decennio, viviamo in un paradigma dominato dalle oscillazioni del forex. Inutile dire che tutto ciò apre scenari di rischio non facilmente gestibili.