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Solo una correzione o cambia il trend?
Lo scorso mercoledì vi è stata l'ultima riunione della Banca centrale statunitense sotto la presidenza di Janet Yellen. La sua gestione è stata caratterizzata da grande prudenza e da un atteggiamento accomodante, sull'onda del predecessore Ben Bernanke, fino al tentativo di normalizzazione della politica monetaria. E proprio nel momento dell’addio le piazze finanziarie stanno dando pesanti segnali negativi.
I dati attuali sono in fondo insignificanti per affermare che la festa dei mercati è finita, però l'andamento delle correlazioni tende a mostrare un quadro a dir poco preoccupante. Da una parte il rally dell'euro sta rendendo le piazze azionarie del Vecchio continente fra le peggiori in termini di performance a livello planetario, dall'altra le manovre di rialzo dei Fed Funds e, soprattutto, di riduzione dei bilanci da parte della Fed stanno portando il complesso dei Treasury vicino a un bear market, con il decennale che ha toccato quota 2,85% di rendimento (il trentennale ha superato abbondantemente la soglia del 3%), il livello massimo da quattro anni a questa parte.
A ciò si sta pure accompagnando una maggiore ripidità da parte dell'intera curva. Più volte è stato indicato nel 3% di rendimento del decennale Usa una sorta di soglia di pericolo oltre la quale si sarebbero avuti danni pesanti a tutto il complesso dei premi al rischio che si sono sviluppati quest'anno. Conseguenze pesanti si svilupperebbero anche sull'economia reale, vista la quantità di debito e strumenti finanziari che sono prezzati a partire dai governativi. La volatilità di questi giorni, con il Vix che ha superato quota 18, un livello che non veniva toccato dall'autunno del 2016, la peggiore settimana del Dow Jones dall'estate del 2015 e il probabile calo dai picchi dell'S&P 500 di oltre il 5%, che porrebbe fine al periodo più lungo della storia senza neppure una mini correzione, sono tutti segnali di un chiaro fenomeno: che il mondo non può sostenere una normalizzazione, anche modesta delle politiche monetarie.
In un simile contesto l'Europa non può reggere un dollaro debole, giustificato in verità solo dall'anticipazione di una prossime fine del Qe da parte della Bce. Di conseguenza forse i maggiori banchieri centrali del pianeta dovrebbero ripensare a ciò che stanno facendo. Nessuno può ritenere di continuare il Qe per sempre e di ripetere all'infinito il goldilocks del 2017 con eccellenti rendimenti e zero volatilità: una correzione sarebbe anzi benvenuta. Ma l'impressione che si ha è che il sistema sia ancora talmente fragile da non riuscire a reggere neppure l'urto di un minimo di tirata del freno a mano.
In concreto cosa bisognerebbe fare? Probabilmente Jerome Powell, il nuovo presidente della Federal Reserve, dovrebbe sospendere il processo di rialzo dei tassi e rallentare il passo di riduzione dei bilanci della Fed, magari mantenendolo i ritmi attuali (20 miliardi di dollari al mese). Ciò probabilmente scatenerebbe un'ondata di vendite sul dollaro piuttosto robusta e a quel punto sarebbe necessario che Draghi mandasse un segnale chiaro di continuazione del Qe e della politica dei tassi a zero per lungo tempo, nonostante le difficoltà di certi istituti sui mercati. Questa azione dovrebbe avvenire coordinandosi con la Bank of Japan e le maggiori istituzioni del mondo emergente (Cina, Brasile, Corea del Sud, Taiwan e Turchia), per stabilire un target di cambio del dollaro nei confronti di un paniere di valute in maniera tale da stabilizzarlo e possibilmente rafforzarlo un poco.
Come si può vedere si tratta di un cambiamento piuttosto radicale rispetto a quanto si sta facendo adesso, che però non prevede di tornare agli anni selvaggi di questo decennio. Può anche darsi che quella attuale sia una modesta correzione come ce ne sono state tante e che gli investitori stiano semplicemente dando i numeri, disabituati come sono a vedere il segno meno sullo schermo. Al tempo stesso, però, forse non è il caso di giocare con il fuoco di una ripresa che potrebbe essere molto più fragile di ciò che appare.