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Come uccidere un bull market
La settimana che sta terminando sui mercati finanziari ha visto, in mancanza di termini tecnici più adeguati, succedere di tutto. Mercoledì la Fed ha rialzato i tassi, evento ampiamente previsto, ma a essere un po' meno scontata è stata l'aggiunta al dot plot della Banca centrale americana di un altro possibile rialzo nel 2019 per non parlare del tono piuttosto aggressivo di molti suoi esponenti di spicco, con Powell nel ruolo della timida colomba. Visti i chiari di luna, non manca chi prevede per quest'anno quattro rialzi dei tassi di interesse anziché i tre che tutti davano per scontati fino a poco tempo fa. Ben che vada a fine 2019 ci troveremo con i Fed Funds al 3%: in un simile scenario, anche nel caso di una curva dei Treasury decisamente piatta, è difficile vedere il decennale molto al di sotto del 4% di rendimento. E non sarebbe una bella cosa.
Un rialzo del costo del debito pubblico di questo genere andrebbe a conciliarsi piuttosto male con la prospettiva di politiche espansive dell'amministrazione Trump sotto forma di tagli fiscali e stimolo infrastrutturale. Per quanto riguarda il presidente, ormai anche i sassi sanno che sembra intenzionato a portare avanti una politica commerciale aggressivamente protezionistica.
L'annuncio di nuovi dazi per 60 miliardi di dollari su prodotti cinesi è stato piuttosto male accolto dai mercati mondiali che sono più o meno tornati ai minimi di inizio febbraio, con un tonfo particolarmente forte da parte dell'ultra-volatile Nikkei: anche l’S&P 500 si trova comunque ormai oltre l'8% sotto i massimi assoluti di fine gennaio.
Francamente ciò che spaventa dell'attuale politica americana è la totale mancanza di coordinamento fra i diversi centri di potere di quella che rimane la prima potenza del mondo. La Fed sta sostanzialmente scommettendo sulla tenuta dell'economia, nonostante l'aggressività monetaria, il che gli permetterebbe di rimettersi in una situazione di quasi-normalità per potere meglio fronteggiare la recessione che prima o poi verrà. Di conseguenza viene smontato il bilancio e incrementato aggressivamente il costo del denaro, nonostante (parole loro!) le tracce di inflazione siano molto flebili.
Il problema è che questo azzardo, giusto o sbagliato che sia, mal si concilia con quello di Trump. Alcuni osservatori ritengono che il presidente Usa spari intenzionalmente queste bombe per potere poi negoziare una soluzione di compromesso con avversari indeboliti e intimoriti. È possibile che sia questo il caso ed è anche da prendere in considerazione che tale linea, per quanto azzardata, alla fine paghi. Ciò che però non sembra ragionevole è riconciliare all'interno di un paradigma di continua buona crescita due visioni così contrastanti come quella di Washington e della Fed. Il protezionismo inevitabilmente porterà, almeno nell'immediato, a deprimere l'andamento del Pil e per contrastare questo effetto sarebbe necessario stimolare la domanda interna, cosa resa molto difficile dal forte aumento del costo del denaro.
In pratica sulla gigantesca economia statunitense sta arrivando una doppia bastonata, che può essere dovuta, almeno in parte, al rancore e all'incomunicabilità che attualmente c'è fra diversi apparati di potere americani, divisi abbastanza nettamente lungo linee di appartenenza partitica.
A ricordarci quali sono i limiti della realtà circostante c’è il paese più avanzato del pianeta, ossia il Giappone, che sta gestendo la sua parabola discendente (anche a livello demografico) verso un'economia a zero crescita. Esso è stato il pioniere del Qe perenne, accompagnato da mercantilismo commerciale e forte stimolo statale alla domanda interna. Qualcuno per caso riesce a immaginare un’Abenomics con Kuroda che rialza aggressivamente i tassi e liquida gli attivi della Boj, mentre Shinzo Abe si butta a testa bassa in uno scontro politico-commerciale con Xi Jinping, la Corea del Sud e Angela Merkel?