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Un’Italia con pochi margini
In questi giorni, per ovvie ragioni, i mercati finanziari italiani sono piuttosto sotto pressione. Lo spread rispetto al Bund tedesco è di nuovo intorno a 200 punti base, mentre il mercato azionario è probabilmente il peggiore fra quelli più importanti.
Per fortuna, per quanto riguarda il debito pubblico, il Bund decennale è comunque in un'ennesima fase di forza, dovuta essenzialmente al fatto di avere sempre più sostituito la liquidità nei portafogli di molti investitori. Se infatti l'allargamento del differenziale di rendimento fosse avvenuto pure in un contesto negativo per la duration core, ci sarebbe stato da piangere. Il Ftse Mib in compenso allo stato attuale è giù di circa il 9,3% dai picchi di gennaio, nonché ai minimi del movimento negativo che è seguito. Dall'inizio dell'anno esso rimane in buon rialzo (+4% circa), certo però che l'aria è cambiata da quando il nostro equity era il più solido a livello planetario, impegnato com'era in un processo di recupero dopo anni terribili.
Infatti neppure la crisi di febbraio aveva portato danni rilevanti a un listino che è stato massacrato per un decennio ben oltre i demeriti effettivi dell'economia italiana sottostante.
È possibile che anche adesso sia in corso un fenomeno simile: quello italiano rimane un mercato speculativo, privo di una base particolarmente ampia e stabile di investitori, in cui l'elemento politico ricopre comunque un ruolo importantissimo. Certo non va dimenticato un elemento: l'Italia ha uno dei debiti pubblici più elevati del mondo, per fortuna compensato da un ammontare di debito privato modesto, e una crescita strutturalmente bassa a causa di una serie di fattori annosi; per di più il nostro paese pesa molto poco a livello internazionale, anche meno delle proprie dimensioni economiche.
Al di là delle personali idee politiche, ciò che appare evidente, però, è che a destra come a sinistra e al centro vi è un generale declino della qualità delle classi dirigenti in giro per il mondo. Fino a qui nulla di particolarmente sconvolgente né originale, il fattore che però distingue l'Italia da altri paesi è che molte nazioni hanno discreti margini per sopravvivere per un certo lasso di tempo a classi dirigenti inadeguate. Negli Stati Uniti, per esempio, gli ultimi tre presidenti non sono stati particolarmente brillanti, però nonostante Bush, Obama e Trump, l'economia Usa ha continuato a produrre ciò per cui è famosa: innovazioni tecnologiche che si traducono in consumi sempre più sofisticati.
Ugualmente Australia, Emirati, Canada, Germania, Usa, Corea del sud, Giappone e Stati Uniti sono tutte realtà diversissime fra di loro, che però possono permettersi di essere amministrate per un certo numero di anni da politici inadeguati, in quanto si tratta di economie con un tessuto di ricchezza e di grandi aziende tale da reggere anche molti errori di politica economica, senza contare la capacità di fare debito per smussare i cicli economici.
Il Belpaese invece avrebbe un disperato bisogno di una classe dirigente non solo adeguata ma addirittura superiore alla media per potere recuperare il terreno perduto.
L'impressione che oggi i mercati finanziari ricavano invece da tutto l'arco politico italiano è che tutto sia all’insegna di un dilettantismo e di un immobilismo patetici, il che rischia di riaprire la voragine dello sconto tipico degli asset italiani, da cui si sperava si potesse uscire e la cui chiusura poteva, e può tuttora, costituire uno dei trade più lucrosi dei prossimi anni.
Altrimenti, per di più se si pensa al rischio che si stia andando incontro a un nuovo rallentamento economico globale, è probabile che si cristallizzi il fenomeno visto in queste ultime settimane: un elevato beta in contemporanea con la parte più in difficoltà dell’Msci Emerging Markets.